30 agosto 2011

La linotype e la monotype

Espressione purissima della stampa della fine dell'Ottocento e di due terzi del Novecento, la linotype fu l'invenzione creata per far fronte alla sempre maggiore velocità di stampa e, di conseguenza, alla necessità di accelerare anche la composizione dei testi tipografici per la stampa destinati principalmente ai giornali e alle testate, per i quasi si impiegava moltissimo tempo dovendo scegliere i caratteri minuscoli uno ad uno.

Una linotype dell'Ottocento
L'inventore della linotype fu Ottmar Mergenthaler, un tedesco emigrato negli Stati Uniti, la data di realizzazione il 1886, una svolta decisiva perché la stampa si caratterizzi sempre di più con l'idea moderna di trasmissione delle informazioni in maniere sempre più estesa. Siamo prossimi alla fine del XIX secolo.
Il primo giornale a testare e a dotarsi di una linotype fu il New York Tribune, che ne fece quasi il suo marchio di fabbrica, fu infatti il direttore del quotidiano a darle il nome con cui è conosciuta, poiché la macchina metteva in riga (in inglese line) un carattere (type) dopo l'altro: la chiamò linotype.

L'impiego della macchina era per la composizione dei testi che sarebbero stati utilizzati nella stampa di libri e quotidiani, dove occorrevano matrici sempre diverse ad ogni nuova uscita, impensabile produrle a mano, specialmente con la frequenza con cui i giornali cominciavano ad uscire e, soprattutto, con le moderne stampatrici con le quali le copie richieste da stampare venivano preparate in un tempo brevissimo (ricordiamo la stampatrice Marinoni che produceva 20.000 copie all'ora!).
La linotype era dotata di una tastiera di fronte alla quale sedeva il linotipista, questa era dotata di caratteri alfanumerici come quelli di una tastiera che potevano aumentare fino a raggiungere una cifra sui 90 a causa di segni, accentature e caratteri speciali. Al tempo delle prime linotype i caratteri erano impressi in bassorilievo sui tasti, così che anche in condizioni di scarsa luminosità il linotipista con una discreta esperienza e manualità potesse facilmente destreggiarsi nel lavoro senza bisogno dei fari moderni piantati sulla zucca.

Linotipista e linotype, primi del Novecento
...e qui un po' di polemica non posso esimermi dal farla, non tanto alla linotype, ma alla produzione moderna, impersonale, asettica, spigolosa.
In passato, si sa, a causa dei costi altissimi degli oggetti e dei macchinari, questi erano realizzati veramente bene, le stampatrici e le linotype, oltre che mostri di meccanica e, per l'epoca, tecnologia, erano anche esteticamente gradevoli, con rifiniture e impressioni metalliche che al giorno d'oggi, secolo dell'usa-e-getta, non sappiamo neanche cosa siano. Nelle città industriali, per preservare ciò, è nata la cosiddetta archeologia industriale per il recupero di presse per l'acciaio, cartiere, laminatoi o edifici fatiscenti: ai nostri occhi sembrano capolavori d'artigianato e di architettura la cui realizzazione richiedeva una cura per i particolari ormai banalmente considerata una mera perdita di tempo, erano il segno evidente della raffinatezza e dell'attenzione di cui era destinataria la produzione, basti pensare che i macchinari industriali, quindi non certo di bellezza, come la rotativa Marinoni o le stampatrici Miller in voga nell'America del dopoguerra, sopra avevano una grossa scritta in metallo con il nome del produttore e anche le macchine da cucire erano realizzate con la stessa precisione: tutti noi abbiamo visto una Singer, nella nostra vita, con il caratteristico marchio arcuato in ferro disposto sotto il tavolino e impresso anche nel pedalino.
L'esempio più evidente è quello del comune di Busto Arsizio, nato come villaggio industriale intorno all'enorme industria tessile e oggi convertito in un luogo per famiglie: ha lo stesso fascino dei quartieri popolari nati dalle colate di cemento armato?
E secondo voi Crespi d'Adda, anche lui ex area industriale, ha lo stesso fascino di certe costruzioni moderne?
A voi le considerazioni...
Crespi d'Adda, ex area industriale
Lo stabilimento di Ilva a Genova


 Funzionamento della linotype
Monotipista seduto alla sua monotype
Il funzionamento del macchinario era molto complicato e prevedeva un corredo di ruote dentate, cavi, tubi, dadi, viti e bulloni impressionanti, oltre che una batteria di pistoni in funzione che potevano far concorrenza ai pozzi di estrazione. Cercherò di spiegare meglio che posso il procedimento.
Il linotipista, seduto alla sua postazione di fronte alla tastiera, premendo il tasto corrispondente alla lettera, innescava un complesso meccanismo di ingranaggi che andava a liberare dal magazzino la lettera prescelta; il magazzino della macchina era costituito da dozzine di piastrine con lettera in rilievo, perfettamente selezionate nella loro postazione, alla cui variazione bisognava riassettare la macchina. Tramite apposite condotte la lettera prelevata dal magazzino veniva posizionata sulla riga di battitura, cioè sul testo che si andava a comporre e che era situato proprio all'altezza degli occhi del linotipista, il quale, essendo operatore esperto, poteva accorgersi di eventuali errori a occhi, ribattere la lettera corretta e sostituirla a mano a quella errata, dopotutto si trattava solamente di blocchetti...
Una volta completata la riga, la parola o la frase, composta anche da spazi, caratteri speciali e segni di interpunzione, tramite una leva o un tasto speciale veniva dato il comando di "a capo" che costituiva anche l'ordine di fusione.
Le lettere in sequenza, infatti, andavano a fare da matrice per una miscela di piombo che si imprimeva sulle parole, creando la sequenza perfetta di ciò che era stato scritto, questa, una volta raffreddata, veniva espulsa dalla macchina in un blocchetto lungo e sottile, tanti blocchetti così creati andavano a comporre un testo e imbastiti insieme tramite apposite cornici d'impaginazione (per dare dimensioni, spaziature, margini e quant'altro) si preparava la tavola finale, la quale veniva a sua volta utilizzata come master, cioè il sorgente per le stampe, da inserire in apposite stampatrici come la Marinoni che abbiamo visto in precedenza nel post dedicato alla rotativa. Talvolta dalla produzione della pagina all'inserimento nella stampatrice venivano fatte altre due copie (positivo/negativo) per avere un sorgente in un unico blocco.
Riassumiamo il procedimento in pochi semplici punti
  • Il linotipista batte la lettera sulla tastiera
  • Questa viene prelevata e disposta in riga, in coda a quelle già presenti
  • Con il comando di "a capo" si dà alla fusione la parola appena creata
  • Si genera il blocchetto di piombo fuso che si accoda a quelli già creati.
  • Più blocchetti si accumulano e si forma la pagina
  • Terminato il testo della pagina, l'impaginatore prende il blocco dei blocchetti e lo impagina in appositi riquadri con altri blocchi di spazio.
  • L'intera struttura viene sigillata tramite apposite chiavi e usata per le stampatrici o per farne copie
La linotype è una macchina enorme, un mastodonte affascinante che ancora oggi suscita sentimenti di attaccamento verso questa tecnologia ormai obsoleta dopo l'introduzione dell'impaginazione a freddo o fotoimpaginazione (anni Settanta XX secolo), cioè quella fatta tramite l'ausilio di computer e monitor dove il testo viene prima visualizzato a video e solo successivamente stampato.
Se io stessa, informatica e programmatrice convinta, nutro un amore viscerale verso la macchina da scrivere, un autentico residuato bellico, in disuso, comprendo bene cosa può suscitare una linotype.
Ho trovato particolarmente commovente il video realizzato da Bill Malley che ha realizzato un cortometraggio su di sé e sulla sua linotype, intitolato The linotype tells the story of one man's relationship with obsolete technology.
Vi lascio il video così che possiate guardarlo tutti



Ecco un video in inglese dove un tecnico spiega come funziona la linotype in sua dotazione



La monotype
Consorella della linotype era la monotype, un'analoga macchina gigantesca specializzata nella composizione di testi lunghi o complessi per formattazione, per esempio romanzi, oppure tabelle e orari.
La monotype funzionava con procedimento diverso e molto più "novecentesco", impiegando infatti un sistema che sarebbe poi stato ripreso nei primi calcolatori: quello della perforatura di nastri.

Monotipista alla monotype e macchina compositrice per ricostruire il testo dal nastro di carta perforato
Il monotipista, infatti, digitava sull tastiera le lettere del testo che, al posto che comporre la singola riga, andavano a perforare con una certa sequenza convenzionata una lunga bobina di carta posta sopra la macchina, come il rocchetto della macchina da cucire.
Una volta concluso il proprio lavoro il monotipista smontava la bobina dalla sua sistemazione e la riposizionava su un apparato analogo detto macchina compositrice che riproduceva la battitura, preparando i testi come avrebbe fatto un linotipista, ma a differenza dell'altro caso, dove le righe erano un blocco unico, qui tutte le lettere erano separate: alla richiesta di lettera, infatti, la monotype liberava una letterina dal magazzino e quella stessa andava a comporre la riga, ma non per essere poi fusa, bensì per andare direttamente a fare da master di stampa, da timbro, in sostanza.
Questo metodo era molto vantaggioso, specialmente perchè la bobina consentiva di avere copia dell'originale e infiniti master di stampa del testo, che poteva essere ricreato in qualsiasi momento. Come si nota dal procedimento, era già nell'ottica di avere un magazzino di materiale consumabile che andava periodicamente rabboccato (le letterine finivano).
Donna seduta alla monotype, come le segretarie, linotipisti e monotipisti lavoravano in batteria, ce n'erano un grande numero in tutte le redazioni e le case editrici.
Sulla linotype e sulla monotype è stato girato un piccolo documentario americano, di cui vi lascio il trailer, poichè il progetto di realizzazione è molto costoso e i realizzatori dei semplici appassionati, chi volesse interessarsi troverà al seguente link il sito dedicato e la possibilità, se lo desidera, di fare una donazione
Linotype: the film


Considerazioni
Purtroppo, arrivati a questo punto dello sviluppo tecnologico dove non si stampa quasi più (ebook, web 2.0, ecc) le considerazioni vanno fatte: aprendo un qualsiasi libro più vecchio degli anni Settanta, senza necessariamente finire tra quelli ricopiati dagli amanuensi, non troverete un singolo refuso o errore di battitura, oggi invece, aprendo certi volumi, viene il raccapriccio nel trovarsi errori, caratteri mancanti e battitura scorretta, per non parlare dell'italiano sgrammaticato e senza senso!
Sì, sto parlando di un caso specifico: Soulless, ma come ho avuto modo di constatare, questa sembra la linea di condotta adottata da molte case editrici, sacrificare la qualità del prodotto in favore di un'economizzazione del processo. Tanto ci si arriva per senso... sembra essere il comun denominatore dietro si cui trincerano i responsabili ed è sbagliato ideologicamente.
Come avranno fatto in passato, quando si leggeva tanto quanto oggi, ma si impiegava il quadruplo del personale? E non solo perchè c'erano i raccomandati... fare il linotipista era un lavoro duro e stancante, pensate che per limitare l'assorbimento del piombo della fusione e dell stampa i linotipisti erano costretti ad assumere latte prima dell'ingresso in servizio e a volte anche dopo, in questo modo certi datori di lavoro pensavano di tutelarsi contro eventuali morti o richieste di risarcimenti per problemi di salute.
E non venitemi a raccontare la storia della crisi, né quella economica né quella dell'editoria, il Novecento ne ha viste tre di crisi economiche globali e la crisi dell'editoria, poi, è la bufala del secolo perchè un sacco di gente legge.

Monotipista all'opera
Una volta un autore che decideva di dare alle stampe il proprio manoscritto aveva di fronte a sé almeno tre o quattro persone che controllavano e correggevano il suo scritto, l'editor, per esempio, che revisionava le sue bozze, il linotipista o monotipista che le ricopiava e il proto, un impiego ormai inesistente, che si preoccupava di controllare che a stampa avvenuta non ci fossero errori e lo faceva due volte, sia con la prima bozza che con quella ormai impaginata, quale spreco di tempo in nome di un po' di italiano!
Dite addio a tutti, ormai o l'autore è abbastanza smart da saper leggere, scrivere e correggere se stesso, oppure si vedono orrori letterari che circolano impunemente nelle librerie perché sono state mandate alle stampe direttamente le bozze (ormai elettroniche) dell'autore; questi esempi di inaccuratezza nel proprio lavoro andrebbero VIVAMENTE STRONCATI dai lettori e dalla critica, che invece, di solito, decidono di passare oltre perché così fan tutti. Il ritornello mi pare vecchio...

Quello che vi lascio è un reperto rintracciato su YouTube in italiano, quindi una vera rarità, che mostra come era realizzato un libro negli anni Sessanta: buona visione (io ne sono innamorata)



Sperando di poter vedere presto una linotype dal vivo e interagire con essa, vi saluto tutti,
baci





Mauser

28 agosto 2011

La rotativa e il giornale "quotidiano"

Il lettore tiene ora in mano una delle molte migliaia di cope del giornale The Times tolte da un apparato meccanico.
Con queste parole contenute nel suo articolo di fondo, il 29 novembre 1814 l'autorevole quotidiano londinese annunciava la grande novità: l'uso della stampatrice meccanica a vapore.

Tra gli ostacoli maggiori che si erano opposti alla diffusione delle notizie e della stessa cultura era l'alto costo dei libri, che fin dalla meravigliosa invenzione di Gutemberg venivano stampati a mano: certo il progresso c'era stato, visto che prima erano addirittura copiati a mano uno per uno con tempistiche interminabili, ma i tipografi, la nuova professione che aveva visto la luce dopo l'invenzione della stampa moderna, ne componevano faticosamente ogni pagina, riga per riga, carattere per carattere e l'operazione richiedeva tempi lunghissimi, a tutto svantaggio del numero delle copie che potevano essere prodotte.

Tornio manuale per la stampa
Era dunque necessario trovare un metodo che, riducendo gli estenuanti tempi di composizione e stampa, che avveniva ancora con il torchio a mano, consentisse di aumentare le tirature.
Già nella seconda metà del Settecento il problema maggiore della produzione era quello di accaparrarsi il maggior numero di utenze possibili, contava la quantità e non più la qualità e bisognava fare in modo che in moli leggessero e, quindi comprassero e quelli che non lo facevano dovevano essere invogliati a cominciare.
Il Settecento inglese fu un secolo grandioso per l'Inghilterra delle lettere, nacque il romanzo in senso moderno, l'Ivanhoe di Walter Scott, nacque il quotidiano, lo Spectator e ci fu una proliferazione culturare di grandi autori di molti generi, basti pensare a Swift, Defoe, Fielding, Coleridge. Il cittadino medio, con un pizzico di istruzione in più rispetto alla generazione precedente, chiedeva non solo testi per studiare, ma anche per spiegare e per svagarsi, per la satira, per la politica, per le opinioni. La diversificazione del genere letterario fece la fortuna dello stesso e alimentò la sua stessa richiesta, facile quindi comprendere come mai ci sia tato questo balzo produttivo proprio a cavallo dri due secoli e come mai, ancora oggi, l'Inghilterra abbia un'altissima fetta di mercato letterario per quanto riguarda il numero di autori pubblicati; a batterla è solo l'America, ma per un motivo più statistico che talentuoso: in un grande numero di persone è più facile trovarne di valenti.
E comunque, il mercato moderno dei libri non si preoccupa neanche più di pubblicare bravi autori, ma chiunque possa avere successo o vendere indipendentemente dal metodo (propaganda, scandalo, tematiche oscene, singolarità del soggetto, letteratura impegnata, bastian contrari, teorie dei complotti).

La prima soluzione vera e propria al problema del tempo di realizzazione di un libro o giornale venne proposta da Friederich Koenig, tedesco come Gutemberg, quando nel 1811 inventò la prima stampatrice a cilindro mossa dalla forza del vapore.
Il funzionamento prevedeva un cilindro di metallo nelquale scorreva il foglio da imprimere sul piano di stampa, dove si trovavano i caratteri; in tal modo la velocità di stampa diventava molto maggiore rispetto a quella ottenuta col torchio, che doveva percorrere, alternativamente, un percorso dall'altro in basso e, per di più, veniva azionato a mano; era in uso anche il torchio meccanico, che però non aveva modificato sostanzialmente la situazione.

Stampatrice Koenig


La nuova stampatrice, che lo stesso Koenig dotò di un secondo cilindro, venne subito acquistata dal Times di Londra, che durante il collaudo riuscì a stampare 1100 copie in un'ora: con qualche modifica la stampatrice raggiunse, nel 1828 una tiratura oraria di 4000 copie finchè, trent'anni dopo, ne stampò ben ventimila.
In pratica era nato il prototipo della rotativa.

Come tanti uomini di genio, anche William Nicholson non riuscì a godere il frutto del proprio ingegno. Egli fin dal 1790 aveva brevettato una macchina stampatrice dorara d'un cilindro portacarta che rotolava sui caratteri, disposti in un piano e pennellati d'inchiostro; successivamente le aveva apportato una sostanzale modifica, fornendola di due cilindi di cui uno serviva a spingere la carta sull'altro, dove erano allineati i caratteri precedentemente inchiostrati, ma le traversie della vita lo avevano condotto sempre più in basso, fino a fargli provare la prigione, e lo sfortunato Nicholson aveva tristemente finito i suoi giorni nel 1815, proprio quando la stampatrice di Keonig dava i suoi primi, brillanti risultati. Pare, anzi, che il tedesco avesse preso spunto per la sua invenzione da un colloquio avuto con l'ingrese, che era andato a visitare in carcere.

Figlio di immigrati italiani, Ippolito Marinoni era nato e vissuto in Francia: là aveva intrapreso il mestiere di tipografo e già a 24 anni era diventato socio del proprio datore di lavoro; nel 1855, appena trentaduenne, si era meso in proprio aprendo una piccola fabbrica per macchine stampatrici, infine, nel 1872, ideò e costruì la rotativa Marinoni, capace di stampare oltre ventimila copie in un'ora.
Rotativa Marinoni
Il nuovo mostro meccanico si basava sullo stesso principio della macchina di Nicholson, i caratteri di stampa erano però disposti non su un piano orizzontale, ma su un cilindro metallico sul quale scorreva la carta, srotolandosi da bobine: è la cosiddetta carta continua, arrotolta in giganteschi rotoli che potevano contenerne centinaia di metri.

A seguire vi propongo il video di un restauro e una rimessa in opera di una rotativa Marinoni chiamata Presse Universelle, spero sia di vostro gradimento, a mio avviso è molto affascinante



La nuova rotativa Marinoni, l'ennesimo italiano protagonista di qualche invenzione rivoluzionaria, permise alla stampa di ogni tipo l'ennesimo balzo verso il futuro.
A questo punto, velocizzata la stampa di testi, occorreva però accelerare anche la loro produzione: il risultato sarà la linotype, una macchina che permetteva di creare automaticamente e di volta in volta la sequenza di caratteri necessaria, ma lei sarà protagonista di un altro post.


Baci





Monica

26 agosto 2011

Alla conquista del cielo


Il sogno della conquista del cielo, della possibilità di librarsi in volo come un uccello è un desiderio antico dell'uomo che lo accompagna dalla più antica storia, saldamente ancorato alla terra dove viveva e coltivava.
Con il passare del tempo in molti ci provarono, spesso con risultati scarsi o disastrosi, cu furono miti di persone che erano riuscite a volare, ma a quanto pare il mito di Icaro e delle sue ali di cera non era un monito sufficiente per tutti.
Ci provò addirittura Leonardo, il personaggio padre di mille scienze e il doppio di invenzioni, eppure fallì anche lui
Nel Settecento Jonathan Swift nel suo celebre romanzo I viaggi di Gulliver descrive la famosa isola volante di Laputa abitata da scienziati dalla conoscenza sterminata che gravitava nel cielo dentro un turbine di nubi. Eravamo a metà del Settecento e l'epoca del volo sembrava ancora distante, ma con la spregiudicatezza figlia dell'età dei lumi che aveva convinto molti che la scienza era la risposta a tutte le domande e la soluzione di tutti i problemi, la conquista del cielo cominciòad essere uno di quei sogni che erano rimasti tali troppo a lungo e bisognava fare qualcosa al riguardo.

Il 21 novembre 1783 il dottor de Rozier e il marchese d'Arlandes compirono l prima ascensione umana sul pallone costruito alcuni mesi prima dai fratelli Joseph ed Etienne Montgolfier: era un successo tutto francese, col quale iniziava ufficialmente la storia del volo umano; de Rozier, purtroppo, fu anche il protagonista del primo incidente aereo mortal, giacchè appena due anni dopo, perse la vita precipitando col proprio aerostato.

Il disastro non impedì che le imprese col pallone si moltiplicassero: il francese Blanchard e l'inglese Jeffries portarono a termine la prima trasvolata della Manica, mentre è del 1804 la prima ascensione scientifica: questa volta a bordo dell'aerostato si trovava il francese Gay-Lussac, che compì degli studi sul magnetismo, l'umidità e la pressione; in una seconda ascensione lo scienziato raggiunse la rispettabile quota di 7.500 metri, stabilendo il primo record mondiale.

Negli stessi anni faceva la sua comparsa il paracadute, già ideato tre secoli prima da Leonardo da Vinci: il primo a costruirlo e a collaudarlo felicemente fu tuttaia il francese Lenormand, che si lancio dalla torre dell'Osservatorio di Montpellier.

Mongolfiere e paracadute divennero ben presto familiari anche alle donne, che proprio nelperiodo a cavallo tra i due secoli davano l'avvio ai primi movimenti per la propria emancipazione. Tra le numerose donne aeronaute divenne famosa madame Blanchard, moglie del trasvolatore della Manica, che però perse la vita nel 1819 precipitando col proprio aerostato; la prima donna a fare del paracadutismo una professione fu invece madame Garnerin, che tra il 1815 e il 1836 eseguì oltre quaranta lanci.

Gli aerostati ebbero un ruolo importante durante la guerra franco-prussiana del 1870: per spezzare l'isolamento della capitale assediata e mantenere i collegamenti con le province, il governo repubblicano (la sconfitta francese aveva causato il crollo di Napoleone III e i francesi, si sa, come noi italiani hanno l'abitudine di cambiare idea rapidamente e, soprattutto, drasticamente) lanciò una settantina di mongolfiere, sulle quali presero posto le staffette da inviare nel resto della Francia; in una si trovata anche il ministro Leon Gambetta, uno dei padri della nuova repubblica franse.
Ai prussiano non rimase che... inventare l'artiglieria contraerea per abbattere quegli strani mezzi di comunicazione nei quali veniva trasportata anche la posta!

Fin dalla loro comparsa, però, le mongolfiere avevano rivelato un gravissimo inconveniente: gli aeronauti non avevano la possibilità di pilotarle e tutti gli accorgimenti escogitati per renderle dirigibili (eliche, vele, remi, timoni) risultarono inefficaci; un'ulteriore prova si ebbe alla tragica conclusione del primo tentativo di raggiungere il Polo Nord in pallone.
Fu lo svedese August Andrée a portarlo in atto, nel 1897: ottenuti i necessari finanziamenti da un gruppo di mecenati tra cui Alfred Nobel (l'inventore della dinamite) e lo stesso re di Svezia, si levò in volo in compagnia di altri due suoi conterranei su una mongolfiera dotata di tre ampie vele... e nessuno ne seppe più nulla. Solo nel 1930, e per puro caso, l'equipaggio di una nave norvegese recuperò le salme dei tre sfortunati aeronauti, furono ritrovati anche un diario di bordo e una serie di fotografie che spiegarono al mondo i particolari di quel drammatico viaggio senza ritorno fra le gelati solitudini dei ghiacci polari. Perve la definitiva sconfitta della mongolfiera che pure aveva ispirato l'entusiasmo di Jules Verne, fedele cronista dei maggiori progressi realizzati nell'Ottocento: nel 1863, infatti, era uscito un suo romanzo intitolato Cinque settimane in pallone.


I dirigibili, transatlantici del cielo
Erano trascorsi esattamente cento anni dal lancio della prima mongolfiera quando l'uomo riuscì a far volare un aerostato dotato di motore elettrico: era il primo dirigibile e fu battezzato La France, pilotato da due capitani dell'esercito francese: C Renard e A.C. Krebs.

Il dirigibile La France
Già dalla metà del secolo si erano fatti numerosi tentativi di volo guidato, affidati all'unico mezzo di propulsione allora disponibile, il motore a vapore. Nel 1852 l'ingegner Henri Giffard (un altro francese!) aveva ideato un aerostato dalla caratteristica forma di sigaro, la sagoma del dirigibile, appunto, fornendolo di un motore di 3 cavalli-vapore: l'aeromobile, lungo oltre 40 metri e largo 12 era riuscito a levarsi in volo e ad atterrare senza danni [il che, visti gli altri esperimenti non era poco...], ma si dimostrò impossibile da governare, il motore infatti, non gli imprimeva una spinta sufficiente per superare la forza del vento e delle correnti.
Nonostante il fortunato tentativo del dirigibile La France, fu chiaro che neppure il motore elettrico avrebbe risolto il problema di ottenere la velocità necessaria a vincere la resistenza dell'aria.
Nel frattempo, però, era comparso sulla scena il motore a scoppio e per il dirigibile fu una vera forutna.

Il primo dirigibile spinto da un motore a scoppio fu costruito da due tedeschi, Wolfert e Baumgarten, che lo collaudarono nel 1888; nello stesso anno il conte Almerico da Schio progettava il primo dirigibile italiano, che iniziò a volare nel 1905. Un ulteriore contributo al nuovo mezzo aereo giunse dall'alluminio, il metallo che proprio in quegli anni si cominciava a produrre dall bauxite, veniva perciò chiamato argenti di argilla [che nome orribile] e ben presto se ne intuirono le innumerevoli possibilità di applicazione.

Nel 1897 l'austriaco Schwarz ideò il primo dirigibile in alluminio: fu un insuccesso a causa di un incidente tecnico, ma diede una preziosa indicazione quando, precipitando, non si incendiò né andò in mille pezzi. Prima di allora i palloni dei dirigibili erano flosci, ma si comprese che un involucro rigido sarebbe stato di gran lunga superiore e più sicuro e nell'affascinante storia della conquista del cielo sorse un personaggio che ne avrebbe segnato una tappa decisiva: il conte Ferdinand von Zeppelin che fece della sua Germania la patria dei dirigibili.
Il dirigibile LZ-1 progettato da Ferdinand von Zeppelin
al suo primo volo sul Lago di Costanza


Il 2 luglio 1900 la folla assiepata sulle rive del lago di Costanza vide levarsi dalla calma superficie dell'acqua uno scintillante e affusolato colosso di alluminio: era l'LZ-1 (Aeronave Zeppelin-1), la cui realizzazione aveva richiesto due anni di lungo lavoro. Lungo quasi 127 metri e con un diametro di oltre 11, l'involucro rigido conteneva 17 palloni gonfiati a idrogeno e reciprocamente isolati; all'aeronave erano appese due navicelle laterali dotate ciascuna di un motore a quattro cilindri, cui facevano capo due grandi eliche.
L'equipaggio comprendeva lo stesso Zeppelin e due meccanici, mentre erano ospiti un giornalista e un amico del conte: il gigantesco transatlantico dell'aria rimase in volo per circa venti minuti, si rivelò agevolmente manovrabile e atterrò regolarmente.
Il successo dell'impresa spinse il conte a continuare su quella strada e dal suo lavoro appassionato nacquero i dirigibili più famosi della storia dell'aviazione finchè uno di essi riuscì a trasvolare l'Atlantico dalla Scozia a New York (1919) compiendo il tragitto di andata e ritorno in otto giorni esatti.

Frattanto però era andata affermandosi una nuova macchina volante più pesante dell'aria: era l'aeroplano che col francese Blériot (trasvolata della Manica 1909) e col peruviano Chavez (trasvolata delle Alpi, 1910) conquistava i suoi primi record.
La storia del dirigibile, che così faticosamente aveva conquistato la sua fettina di cielo era ormai al declino. La sua gloria durò ben poco, ma mantenne comunque la nomea di gigante dell'aria e divenne una delle icone classiche dello steampunk moderno.
Raffigurazione di un dirigibile steampunk

Link, approfondimenti e bibliografia
Alberto Caocci - La vita e i costumi nell'Ottocento
Wikipedia IT - Mongolfiera
Wikipedia IT - Dirigibile
Wikipedia IT - Laputa
Wikipedia IT - I viaggi di Gulliver
Jonathan Swift -  I viaggi di Gulliver
Hayao Miyazaki & Studio Ghibli - Laputa il castello nel cielo [CONSIGLIATA la visione del film]
Jules Verne - Il viaggio del mondo in 80 giorni
Scuola in ospedale - Storia del volo
Federazione Italiana Volo Libero - Storia del volo
Storia del volo umano - dalle origini al 1700
Riccardo Niccoli - La storia del volo
Paolo Magionami - Quei temerari sulle macchine volanti

Spero che questo approfondimento sulla conquista del cielo, fortemente voluto dal mio papà che è un volatore convinto, che non perde occasione di guardare gli aerei che sfrecciano davanti alle nostre finestre [vi lascio dire il casino che fanno...], che nomina un Airbus, un Boing, un atterraggio d'emergenza almeno una volta al dì e che credo abbia fatto tante ore di volo quante George Clooney nel film Up in the air (2010) sia stato piacevole e interessante.

Baci




Mauser

24 agosto 2011

La sarta di Arles: il dipinto

Cari lettori, rispolvero dopo molto tempo di assenza la mia rubrica dedicata ai dipinti e vi propongo oggi un quadro che personalmente adoro per i suoi colori allegri e le particolarità che mostra.
Ecco quello che ho scelto

cliccare sulla figura per ingrandirla

Scheda tecnica:
Titolo originale dell'opera: The Couturier's Workshop, Arles
Traduzione: L'atelier della sarta, Arles
Autore: Antoine Raspal
Anno: 1760
Tipo di pittura: olio su tela

Questo quadro dipinto a olio su tela mi piace moltissimo per la vivacità che riesce a trasmettere e anche per la quotidianità che rievoca con i suoi colori e la sua gestualità.

La rappresentazione è particolare sia per la scelta del soggetto, la bottega di una sarta di Arles, sia per il modo in cui è stata rappresentata attraverso le varie lavoranti intente nei loro compiti di cucito e ricamo; di tutte la padrona del negozio è la donna seduta sopraelevata affianco alla finestra, la mano protesa ad indicare come scelta uno di quelli che la sua apprendista l sta mostrando.


Abbigliamento e contesto
Le donne ritratte nel quadro come lavoranti alla bottega della sarta di Arles vestono colori sgargianti e fantasie molto inusuali, l'autore si è servito di ciò per far sì che il quadro fosse ancora più allegro e colorato, si possono infatti riconoscere moltissime tinte, alcune sgargianti, e fantasie di tessuto.
Un vestito ricamato a fantasie differenti dalle classiche righe o tinte unite era molto più costoso rispetto ad altro in quanto la lavorazione per stampare o ricamare le figure sulla stoffa era elaborata e, quindi, impiegava tempo di lavoro che, naturalmente, cucitrici, sarte e ricamatrici si facevano pagare.Questa profusione di fiorellini e ricami nelle vesti appese (e anche in quelle indossate dalle ragazze) è anche sinonimo del fatto che la sarta fosse piuttosto rinomata e lavorasse anche per persone abbastanza ricche da potersi permettere certe stoffe.

Osservate quante fantasie l'autore raffigura nella sua opera



Una cosa molto curiosa da notare, nell'abbigliamento delle donne, è il fatto che ciascuna di loro porti un fazzoletto o un copricapo in testa. Non tutti sono bianchi, certuni sono in fantasia, tuttavia non ce n'è una che non lo porti.
Soprattutto nel Settecento era impensabile che una ragazza, specialmente se nubile, se ne girasse a capo scoperto e con i capelli al vento, cuffiette, cappellini o addirittura lo scialle posato sul capo erano la regola per qualsiasi ragazza se non voleva essere vittima di maldicenze; era permesso uscire senza cappellino o cuffietta solo se si era nel giardino di casa, ma anche lì molte la portavano... Anche le contadine, sebbene si dica, giravano a capo coperto con un fazzoletto multicolore legato sulla nuca o sotto il mento.

Osservando attentamente il quadro, inoltre, l'osservatore può constatare come il tavolo ingombo sia disposto accanto alla grande finestra a vetri. Le finestre al tempo erano molto grandi proprio per permettere l'entrata di più luce per i lavori domestici. Al tramonto, quando il sole calava oltre l'orizzonte, le attività venivano sospese, l'illuminazione era ridotta al minimo, in quanto molto costosa, e terminata la cena si andava tutti a dormire, specialmente perchè la vita dei dipendenti cominciava all'alba e a volte anche prima.



Gestualità
L'autore è riuscito, con la sua cura per i dettagli e la sua bravura di ritrattista, a riproporre al lettore l'atmosfera ciarliera e allegra delle molte donne che chiacchierano insieme, esprimendo preferenze e opinioni sui vari vestiti realizzati; è sufficiente guardare le gambe delle donne, accavallate per il lavoro per riconoscere un ambiente sereno, a differenza di altri quadri dove le impiegate sedevano chine con l'abito sulle ginocchia chiuse, saldamente unite in una posizione scomoda e innaturale, ma molto puritana.
Queste sartini di Arles, invece, rappresentano le ragazze sognatrici e a volte un po' facili della classe bassa nel Settecento, un'epoca molto meno puritana dell'Ottocento, sono le donne che morivano d'amore quando Beau Brummell passava per Regent Street come si trattasse di un moderno divo del cinema, che gridavano invasate e che rispondevano alle battute provocanti degli uomini per strada quando le incrociavano ridacchianti.

Rocchetti e fili colorati che si possono trovare sul pavimento della casa, così come le due ceste di scampoli ai piedi delle ragazze (sotto il tavolo) e affianco alla padrona danno l'idea di un ambiente informale e sereno.


Riconoscere la couturiere, cioè la sarta, è facile in quanto è seduta in una posizione rialzata rispetto alle altre. Couturiere era il nome francese con cui venivano chiamate le sarte, rimase in voga fino all'Ottocento quanto fu soppiantato da un'altra parola francese: modiste (per alre info si veda il post Francesismi demodé e inglesismi trendy).

Con bravura sono stati raffigurati i gesti tipici del cucito, le mani intente nel lavoro della ragazza seduta a capotavola a capo chino e concentrata nel suo compito.
Altrettanto assorta nel suo abito è una delle due ragazze sedute sul lato lungo del tavolo, la sua compagna accanto, invece, fissa lo spettatore dritto negli occhi, l'ago, eppure le sue mani continuano ad operare, infatti l'ago sta tirando il filo del vestito che sta confezionando in un gesto automatico, ormai compito anche senza guardare.

Raspal è riuscito a trasmettere l'idea dell'attimo in cui la padrona ha lasciato momentaneamente il suo compito di cucito per indicare la veste tesa dall'altra ragazza, intenta a reggerla tra le mani; infine una terza sembra proprio intenta a prendere dall'appendiabiti un altra cappa colorata.

Le braccia dipinte da Raspal non sono quelle affusolate e raffinate delle donnine settecentesche di altri autori, specialmente quelli che gravitavano alla corte reale, ma una concreta riproduzione di quelle delle donne popolane del tempo, con muscoli forti e grossi per sopportare la fatica e il lavoro; le maniche sono ripiegate sul gomito, un chiaro segno di quanto lavorassero, dopo un po' infatti polsini e maniche lunghe diventano fastidiosi nel lavoro e ri tende a risvoltarli alla piegatura del braccio perchè non interferiscano.


Cari lettori spero che l'approfondimento sia stato interessante,
ci risentiamo presto,
baci




Mauser

22 agosto 2011

Quando Urano si chiamava Georgiano

Cari lettori,
quanto spesso tendiamo a guardare e giudicare le epoche del passato, i comportamenti, le consuetudini sulla base non solo dell'esperienza personale, ma anche dell'attuale conoscenza?

Giudicare il passato con il metro moderno è sicuramente una delle cose da non fare quando si parla di Storia, ma alle volte è davvero difficile accostarsi a idee che possono quasi apparire balzane, come credere che la Terra sia piatta come un sottopentola o quadrata come un cubo di Rubik.

Un'illustrazione degli anelli di Urano
prima del passaggio di Voyager 2 (1986)
Molti pensano che queste conoscenze siano completamente decadute solo con la scoperta dell'America nel 1492, in realtà già i Greci avevano ipotizzato una Terra rotonda e di certo non credevano al loro stesso mito delle Colonne d'Ercole, ma ci sono altri campi d'azione che possono apparire altrettanto fantasiosi o improbabili.

Pensate, per esempio, che nel 1807 Brooke's Gazetteer pubblicò una lista dei pianeti fino ad allora conosciuti:
  • Mercurio
  • Venere
  • Terra
  • Marte
  • Giove
  • Georgiano
Probabilmente avrete familiarità con i primi cinque, ma il sesto?
Senza contare che ne mancano ben due (Nettuno e Saturno), tre se proprio non si riesce ad entrare nella moderna ottica che Plutone è stato declassato da pianeta a insignificante ammasso di materiale a cui si sta ancora cercando un nome [povere Guerriere Sailor, sono state dimezzate, come faranno adesso senza le Outer Senshi? Michiru, Haruka, Hotaru e Setsuna].

Beh, quel famoso Georgiano che leggete nella lista, probabilmente non è un'entità tanto sconosciuta, di sicuro ne avrete sentito parlare, ma con il nome di Urano.
Ecco cosa ci riporta la Brooke's Gazetteer riguardo questo pianeta:
The Georgian, the most remote planet in our system, had escaped the observation of every astronomer, as a planet, till the 13th of March 1781, when it was ascertained to be a planet by Mr. Herschel, at Bath, who gave it the name of Georgium Sidus, as a mark of respect to his present majesty. Foreign astronomers, however, in general, call it by the name of the discoverer . . . It shines with a faint steady light, somewhat paler and fainter than Jupiter; but its apparent diameter being only about four seconds, it can only be seen by the naked eye in a clear night, when the Moon is absent. Six satellites, attending upon it, have since been discovered.

Il telescopio usato da Herschel
per la sua scoperta
La scoperta di Herschel fu quasi casuale, nella data di scoperta, infatti, l'astronomo stava testanto il suo nuovo telescopio, che si dice avesse comprato al posto di una zangola per sua moglie, tuttavia il suo acquisto si è rivelato estremamente fruttuoso per la scienza moderna e sono certa che anche la signora Herschel, per quanto scettica di fronte a quell'ammenicolo tecnologico, abbia avuto i suoi vantaggi dalla scoperta del marito e con il ricavato abbia potuto comprare la sua adorata zangola.

201 anni più tardi, nel 1982, la sonda spaziale Voyager 2 passò accanto al pianeta, ormai ribattezzato Urano e nel 1986 si avvicinò ulteriormente.

Che effetto fa sapere che nel 1781 non conoscevano il motore a scoppio e duecento anni dopo siamo dotati di una tecnologia tale da permetterci di volare nello spazio?

Ma rimane ancora in sospeso la questione del NOME? Come siamo arrivati a chiamarlo così?
È da dire che fin dalla sua scoperta in molti pensarono che Georgium Sidus fosse un nome cretino per un pianeta, ma le altre proposte lanciate (Nettuno Gran Bretagna) non erano certo più entusiasmanti, almeno finchè nel 1850 qualche intelligentone propose di continuare con la sequela di divinità greche e si scelse Urano tra le molte anche mancanti all'appello [ed è il caso di dire che gli astronomi, così come l'Olimpo greco, non erano certo a corto di materiale! Percy Jackson docet...].

Giorgio III, comunque, che era matto, ma non scemo, assegnò a Herschel una rendita di 200£ annue per la scoperta, gli permise di trasferire armi e bagagli a Windsor perchè l'Occhio Regale di Sua Maestà potesse guardare una volta ogni tanto il pianeta che gli era stato intitolato e gli consegnò la somma di 2000£ perchè costruisse un grande telescopio con cui continuare con i suoi studi. Herscel non si fece pregare e dall'alto della sua carica di Astronomo del Re costruì un gigantesco telescopio riflettore con uno specchio primario di oltre un metro e mezzo e una lunghezza compressiva di 40 piedi.
Frederick William Herschel
by Lemuel Francis Abbott

(l'autore porta il nome del famoso Gulliver del

libro di Jonathan Swift ^_^)
Al link che segue trovare un'immagine del telescopio.

Grazie ai telescopi costruiti da Herschel, che si dimostrarono tra i più potenti ed efficaci dell'epoca, l'astronomo fu in grado di scoprire diversi altri corpi celesti tra i quali i satelliti di Urano Titania e Oberon e quelli di Saturno Mimante e Encelado.
Nella famiglia di Hersche, comunque, il gene dell'astronomia continuò a vagare, furono infatti astronomi la sorella Caroline Lucretia, tra l'altro anche matematica e cantate lirica [abbinamento insolito, oserei dire] e il figlio di Herschel, John, fotografo e scopritore delle Nubi di Magellano.

A Herschel l'ESA, l'Agenzia Spaziale Europea, ha dedicato un telescopio orbitante, mentre porta il suo nome anche un telescopio inglese situato alle Canarie.


Beh, spero che questo piccolo excursus georgiano nel mondo dell'astronomia, in cui ci eravamo già intrufolati parlando di quella fulgida stella che fu l'astronoma Margaret Bryan, sia stato interessante.

Ringrazio il sito Risky Regencies che per primo ha sponsorizzato la scoperta.

Ci sentiamo presto.
Baci a tutti




Mauser

19 agosto 2011

Come il Re Sole introdusse la parrucca

Fu tutta colpa sua se ormai, all'alba dei diciassette anni, ci sono ancora ragazzi che domandano al prof di Diritto se i giudici delle varie corti italiane indossino le parrucche come nei dipinti.
Se pensate che questa conversazione sia l'ennesima esagerazione, sappiate che io ne sono stata testimone durante il secondo anno di scuola superiore quando un mio compagno di classe ebbe l'ardire di porre un simile quesito.

Indubbio è che nel Settecento le parrucche, accessorio ormai quasi completamente tramontato [salvo che nei manga giapponesi dove sono ancora adoperatissime] fossero di gran moda, sia nella foggia a boccoloni che scendeva lungo le spalle, sia nella versione "acconciata" in riccioli sulle tempie e coda da mandarino cinese sulla nuca.
Come mai tutto questo successo per un complemento che aveva perso la sua fama dai tempi dei faraoni?

L'igiene, anche nelle corti più eleganti ed evolute d'Europa, era in condizioni spaventose. Abbiamo scritto qualcosa in passato e vi rimando agli appositi post per ulteriori approfondimenti. Enrico IV di Francia fu un grande sovrano, ma puzzava letteralmente per mancanza di pulizia. Luigi XIV, il famoso Re Sole, non era un bell'esempio per i cortigiani che assistevano alle sue abluzioni mattutine, un autentico privilegio per gli abitanti della sua sfarzosa corte: forse imbarazzato dalla loro presenza, si lavava pochissimo, solo le mani e la faccia, il che vi lascia intendere quali profumi provenissero dalla sua augusta persona e quali strati di sudiciume fossero incrostati nelle zone dove non batte il sole [e non parlo solo del fondoschiena].
I velluti, i colletti a piegoline, le gorgiere, i pizzi e i merletti candidi raccoglievano in abbondanza macchie d'unto durante i pasti [santo chi ha inventato il Viavà, in ditta è l'arma speciale per tutti quelli che usufruiscono della mensa aziendale con i suoi sughi], sudiciume, polvere, pulci e altri parassiti.
E poi ci lamentiamo se qualcuno non si lava le mani prima di sedersi a tavola...

I servizi igienici esistevano soltanto in qualche grande dimora, si diffondevano lentamente suscitando grande meraviglia come in questa descrizione di una marchesa inglese che frequentava Palazzo Belgioioso:
V'è un gabinetto con comodo inglese ove corre l'acqua, essendo il vaso di maiolica in declivio... l'acqua scorrendo velocemente e in abbondanza porta via ogni immondezza.

Domenico Volpi, La vita e i costumi nel Sei e Settecento

Insomma, è proprio il caso di dire che questa stupita signora avesse scoperto l'acqua nel pozzo!
Ma tornando alle parrucche. Luigi XIV di Francia aveva scarsi capelli e dei foruncoli sulla testa, perciò pensò bene di mettersi una parrucca; trovando che essa aumentava la maestosità del suo aspetto la adottò in permanenza. 
La sua idea non fu malvagia, dopotutto fu dettata sì dalla vanità, ma anche dal desiderio di migliorarsi, non di fare tendenza. Peccato che  i nobili di corte, desiderosi di farsi notare agli occhi del sovrano e di sfoggiare l'ultimo grido di tendenza, imitarono il re e si dotarono tutti di boccolose chiome ciondolanti. La parrucca divenne così accessorio indispensabile dell'abbigliamento dei signori e la moda dilagò oltre la Francia in tutta Europa (cfr. Sul perchè la Francia fu la passerella d'Europa) e fin nelle colonie, anche là dove, per il calore, era piuttosto scomoda (pensiamo alle isole dell'America centrali del Golfo del Messico).

Le parrucche furono nel Seicento delle coperte di riccioli che scendevano fino a metà della schiena, nel Settecento divennero imponenti, via via poi si modificando diventando sempre più corte sul dorso, ma altissime sul capo e incipriatissime, zeppe di decorazioni finte come uccellini, fiori, merletti, mollette, fiocchetti, ecc.

Ecco un'interessante illustrazione che mostra come la parrucca maschile si modificò dai primi del Settecento fino alla metà del secolo

 Ci volle la Rivoluzione Francese per far cadere, con le teste, le parrucche dei nobili.

A seguire c'è la scena dal film Amadeus in cui il giovane Wolfgang sceglie la parrucca per la sua presentazione a corte e il suo incontro con Salieri, il compositore ufficiale.


Link e approfondimenti 
Domenico Volpi, La vita e i costumi nel Sei e Settecento
Gail Durbin, Wig, Hairdressing and Shaving Bygones






Mauser

16 agosto 2011

Nelle case di contadini e poveri

Di tutti i post riguardanti le case, questo è sicuramente quello che mi è più caro, specialmente perchè credo che i poveri del tempo fossero davvero dei derelitti, eppure molti avevano grande onore e senso del dovere e si vedevano scorrere davanti agli occhi interminabili ingiustizie sociali.

I ricchi, i borghesi e gli altri benestanti erano coccolati dalla società, tenuti in una certa considerazione, lisciati e ammansiti con facilitazioni di ogni tipo da parte della burocrazia e della vita, credo che siano stati premiati a sufficienza già durante l'esistenza, dare loro troppa considerazione per trascurare la parte popolare delle abitazioni sarebbe ingiusto, loro, i ricchi, avevano ricchezze per un'esistenza più confortevole e quadri che ritraessero le ipotetiche virtù, ma dei poveracci si tende sempre a dimenticarsi.
Poichè sono dell'opinione che la Storia non sia fatta solo dai grandi, dai ricchi e dai potenti, mi accingo oggi a parlare delle abitazioni anche della povera gente.
L'esistenza era difficilissima per tutti, rispetto alle comodità e agli aiuti tecnologici a cui siamo avvezzi noi uomini e donne del XX e XXI secolo, ma per costoro lo era il doppio degli altri perchè il lavoro era estenuante e non si trattava solo di grattare il pennino su un foglio di carta, per quanto antipatico potesse essere il padrone.

In città
Le abitazioni dei poveri erano, nelle città, rinserrate in edifici fatiscenti, in casupole e in "bassi", locali al piano terra o scantinati che ricevevano aria e luce solo da una porta [li cita Sophia Loren nel personaggio di Filumena Marturano in Matrimonio all'italiana].
Interno di una casa povera vittorianaDa notare i molti bambini, la finestra e i panni stesi
per la stanza e, inoltre, le ceste di rape, il camino
ingrombro perchè non ci si poteva pagare la legna
e il disordine della stanza con indumenti sparsi.
Le case dei quartieri peggiori erano costruite muro contro muro, spesso con poco impiego di materiali solidi, ma in gran parte in legno, erano facili ad incendiarsi e a crollare in varie parti. Non c'erano inoltre lavatoi, fogne o rete idrica. Le strade in terra erano lerce, sporche di escrementi umani e di animali, mentre i liquami si raccoglievano ai bordi, essendo il terreno compattato a dorso d'asino per evitare allagamenti.
In questo squallore di luoghi come Whitechapel, forse Jack lo Squartatore ha fatto un piacere a quelle poverette, uccidendole.
Elizabeth Gaskell e Charles Dickens più di tutti gli altri autori criticarono aspramente le difficili condizioni della classe lavoratrice nelle città.
I poveri che abitavano le città erano in larga misura proletari impiegati nell'indotto dei porti o nell fabbriche delle città industriali, vi erano poi reduci di guerra spesso infermi o inabili al lavoro, una folta schiera di piccoli criminali e prostitute e vari disoccupati perchè, a differenza di quel che si crede, anche nell'Ottocento il tasso era altissimo

Una casa di povera gente era costituita da una sola stanza per famiglia dove spesso abitavano i genitori con tutti i figli che non erano certo pochi, e alle volte anche i genitori vedovi di uno dei due. Nel libro I giorni del tè e delle rose la protagonista Fiona abita in una casa composta di tre stanze insieme a padre, madre, zio e quattro fratelli più piccoli.

La mobilia era costituita da un tavolaccio al posto del letto, duro e scomodo, e giacigli di stracci o paglia sul pavimento per il resto dei familiari come le cucce dei cani.
Una stufa era un grandissimo possedimento che, purtroppo, non tutti potevano permettersi. Dalla metà dell'Ottocento, quando cominciarono a diffondersi massivamente, chi poteva ne acquistava di seconda mano, già adoperate da altri, ma in quel caso i rischi di incendi e perdite erano altissimi a causa delle precarie condizioni dell'oggetto.

Nelle zone agricole
In campagna v'era più spazio, ma casolari e capanne e stalle si confondevano; spesso nello stesso locale dormivano gli uomini, la capra e l'asino [Gesù non è nato al Grand Hotel, ma neanche in un posto tanto peggiore della media... l'affituario infatti lo cede senza problemi a Giuseppe e Maria].
Spesso le coppie giovani e anziani, i bambini e le donne usavano i locali disponibili in promiscuità fra loro e con gli animali, con poca aria e luce, mentre i giovanotti non ancora sposati dormivano in un sacco nel fienile.
La vita in campagna era durissima, faticosa e distruttiva per il fisico; ancora nel Novecento i contadini italiani non conoscevano né comprendevano le ferie, le vacanze o la pausa dal lavoro nei campi [gli stessi miei nonni si allontanavano insieme dal loro appezzamento soltanto in ocasione di matrimoni o celebrazioni importantissime].
Casa tradizionale a Lewis nelle Isole Ebridi
Da notare il tetto di paglia tenuto insieme da reti e massi che scende fino al
prato e la piccola finestra verso l'esterno. Il comignolo per il focolare spunta
dall'altro lato, mentre sono in evidenza le pietre di cui è costruita l'abitazione
dal taglio molto spartano e rustico.

Le abitazioni erano costruite con le pietre locali, cementate con malta naturale e argilla che rendesse le pareti solide, i tetti di paglia e canne erano periodicamente rinnovati in quanto marcivano con facilità, specialmente durante le stagioni autunnali e invernali e per proteggerli dall'acqua venivano coperti con catrame o bitume, che rende il tutto impermeabile, ma purtroppo anche facilmente infiammabile.
Il riscalamento interno era dato da un focolare nel pavimento e un'apertura nel tetto da cui potesse fuoriuscire il fumo, all'epoca non badavano molto alle polveri sottili. Le pareti in pietra erano coperte con arazzi e mezzeri pesanti in lana che coibentassero l'ambiente e non c'erano vetri alle finestre.

Moli abitavano in grotte naturali, fra i ruderi di antichi conventi distrutti dopo la riforma anglicana di Enrico VIII, case o cotruzioni, oppure ricorrevano agli asili che potevano offrire i religiosi rimasti in zona, specialmente i conventi ancora operativi.
Interno di una abitazione di campagna.
In primo piano si nota il focolare con un
piccolo paiolo pendente dal soffitto, il
pavimento è in paglia e terra battuta, la
mobilia invece è costruita in legno di
scarto con oggetti fabbricati a mano di
fattura molto grezza (la brocca, la giara, le
stoviglie)
Quando le carestie e il banditismo devastavano le campagne e sospingevano i superstiti verso le città, allora si arrivava al disordine totale, gli ex contadini ridotti alla fame e privati di tutto spesso abbracciavano la carriera dei criminali e compivano furti ai personaggi più esposti: parroci, agricoltori danarosi, vedove.

Lo storico settecentesco Giuseppe Maria Galantia ci ha lasciato delle Descrizioni della situazione in cui si dice, tra l'altro:
Il contadino viene spogliato di quanto raccoglie dai baroni, dal clro, dai frati mendicanti, dai governatori, dalle tasse e dai tribunali, dall'avvocato e dal medico.
Un panno grossolano e una camicia di canavaccio forma tutto il suo vestire. Un pezzo di pane di granoturco, una minestra di cavoli condita di sale, vino cattivo di cui fa un uso indiscreto, ecco tutto il suo pranzo. Un tugurio meschino e sordido, esposto a tutti gli elementi, forma la sua abitazione.
Vive in perpetue angustie ed oppressioni e molti sono coloro che abbandonano un ingrato travagli per darsi a furti e rapine...


Anche il poeta Giovanni Meli, nel primo anno dell'Ottocento, scriveva le sue Riflessioni sullo stato presente nel regno di Sicilia intorno all'agricoltuira e alla pastorizia e doveva ancora costatare, dopo alcuni tentativi di riforma:
Il primo aspetto della maggior parte dei paesi e dei casali dell'isola annunzia la fame e la miseria. Non vi si trova da comprare né carne né caci né del pane perchè, tolto qualche benestante che panifica per uso proprio, i villani si nutrono d'erbe e di legumi, e nell'autunno di alcuni frutti spesso selvatici e di fichi d'India.
Non s'incontrano che facce squallide sopra corpi macilenti, coperti di lane sudice e cenciose.

Come vedete la situazione dei meno poveri non era paradisiaca.
Il fatto che ci si sia dimenticati o quasi di tutto ciò è, secondo me, una mancanza di rispetto verso queste persone che avevano tanta dignità quanto il Duca di Clarence e, quindi, non meritavano di finire nell'oblio collettivo.
Famiglia in interni
by John Phillip
Il disordine regna sovrano in questo quadro, così
come la scarsa qualità della fattura dei mobili provenienti
da vari set e produzioni differenti (le linee sono diverse).
Il pavimento è, anche qui, in terra e le pareti con pietre a
vista non certo per motivi di estetica o effetto country.
Le persone nel quadro costituite da due anziani
e da due donne, come tutti i meno abbienti del-

l'epoca sono scalzi e vestiti con panni rammendati di
stoffa grezza.
Il fatto che la povertà fosse dilagante e le condizioni di vita pari a quelle del Terzo Mondo dovrebbe farci riflettere su quanto il progressio industriale crescesse a discapito dello stato sociale, sulla pelle dei poveracci che lavoravano anche sedici ore al giorno per portare a casa da mangiare a sufficienza pochi spiccioli, pensate che lo stipendio di un operaio non permetteva di acquistare il cibo per tutta la famiglia, così le mogli compravano carne soltanto per gli uomini adulti di casa perchè il loro lavoro di braccia era molto più pesante e necessitavano di più energie, le donne si nutrivano di minestra e legumi e niente pane!
Paradossalmente in campagna si stava meglio, se il raccolto non andava perduto si aveva da mangiare per tutti qualcosa di nutriente...

Come vedete le epoche del passato erano dei veri inferni, eppure uomini e donne robusti e coraggiosi hanno permesso che il loro lavoro e le loro piccole conquiste portassero alla florida quanto comoda esistenza moderna. Dimenticarci di loro non è solo maleducazione, ma è anche privare queste persone dei loro meriti, di cui noi tutti cogliamo i gustosi frutti seduti su comode poltrone ergonomiche di fronte ad un pc tecnologicamente avanzato, contattando il mondo dall'altra parte dell'oceano.





Mauser


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