24 luglio 2011

L'Italia NO

Cari lettori,
questo non è un post di approfondimento, è una spiegazione. Nella vita, a dispetto di quel che si dice o ci piace dire, di queste cose se ne fanno tante.
Io lo faccio perché ai miei lettori voglio bene e perché scrivere e approfondire queste epoche storiche che mi interessano, il motivo per cui ho aperto il blog, è un passatempo, non un mestiere.
Se mi pagassero per scrivere, cosa improbabile, forse i miei post sarebbero un po' meno zeppi di refusi da tastiera e periodi sgrammaticati, correzioni dimenticate, ecc.

Recentemente, non so cari lettori che vi è preso, mi sono state fatte un sacco di richieste di approfondimenti. La cosa mi ha molto rallegrata, ci tengo che il rapporto sia di amicizia, questa non è un'aula scolastica, eppure la cosa che mi ha lasciata maggiormente perplessa è che una buona percentuale di queste richieste si riferissero all'Italia.


Se mi aveste chiesto la Francia, sappiatelo, avrei dato in escandescenze, o più probabilmente la mia posta avrebbe rigurgitato quelle mail, perché io solo la filo britannica più filo britannica che mai potrete incontrare sul vostro cammino, potrebbe battermi, forse, la Regina Elisabetta II, ma anche lì ho i miei dubbi.
So che parlando dell'Italia, invece, avete fatto leva sul mio cuore patriottico che sapete io possiedo per via di un paio di sentimentalismi che mi sono sfuggiti questa primavera.
So che tanti ci tengono e che probabilmente la mia risposta deluderà qualcuno, per questo ho deciso di motivarla, così che nessuno rimanga offeso o pensi che l'unico motivo per cui non scrivo dell'argomento Italia sia perché sono una pigrona irrecuperabile, cosa per altro abbastanza vera, ma che al momento non importa.

1) Il primo motivo che mi spinge a non volermi accostare all'argomento Italia è sicuramente quello della coerenza.
Quando ho aperto il blog, ormai la bellezza di due anni fa, ho fatto un buon ragionamento prima di decidere COSA sarebbe stato. La mia prima idea era per un blog di libri, ma la rete pullula di questo genere di approfondimenti ed io, megalomane come al solito, volevo distinguermi nel mucchio. Arrivata alla decisione che il mio blog sarebbe stato storico rimaneva da decidere su quale periodo.
I periodi che amo sono due, quello vittoriano e quello medievale, entrambi confinati su suolo inglese. Mi dispiace, ma se non è britannica la storia, per quanto l'ami, non ha la stessa presa su di me. Sarà sicuramente un fattore psicologico, chi lo nega, ma è così.
Ho scelto di approfondire l'epoca georgiana e vittoriana e queste due epoche sono relegate, nella stessa definizione che se ne fa, al suolo britannico e al periodo che va dal Settecento alla fine dell'Ottocento. Ogni epoca, abbinata ad un luogo, ha un nome, se avessi scelto l'Italia avrei parlato di Risorgimento. Purtroppo non l'ho fatto, quindi visto che il blog è dedicato all'epoca vittoriana, mi sembra un controsenso andare a parlare d'altro più che per qualche riga e per risposte a quesiti specifici e risolvibili senza necessità di post.

2) Motivo numero due, avete idea di quanto sia complessa l'epoca risorgimentale italiana?
Se con epoca Georgiana e Vittoriana avessi banalmente fatto riferimento al Settecento o all'Ottocento, la mole di lavoro da fare decuplicherebbe. Ho dato una definizione precisa proprio per questo motivo.
Parlare in maniera generalizzata di un periodo comporta che l'autore, oltre ad un buono staff, conosca e trasmetta ai lettori conoscenze socio-culturali in quantità notevoli, creando un backlog non indifferente a cui fare riferimento.
Dopo due anni io a stento riesco a riferirmi a certi argomenti senza rispiegarli ogni volta, come si potrebbe fare per un periodo tanto vasto? Per ciascun periodo e ciascuna realtà culturale andrebbero rispiegate le basi, le vicende, le cause storiche e culturali, il lavoro diventa enorme, specie se ci si riferisce a qualcosa di complesso come l'Italia, con la sua storia di unificazione recentissima: praticamente una minorenne.
Insomma, sarebbe come mettere assieme una decina di blog come questo.

3) L'ultimo motivo, perché di solito le motivazioni sono sempre tre, è forse quello che guida maggiormente il mio modo di pensare.
Per orribile da dire che sia, in termini di patriottismo, la storia d'Italia non mi piace granché.
Vi riassumo la mia visione della storia italiana dall'Ottocento ad oggi:
Una famiglia di megalomani (i Savoia) con le idee confuse e un passato che è meglio dimenticare (montanari) si è messa in testa di fare l'Italia unita sfruttando gli intellettuali che ci credevano davvero; hanno creato un paese fatto di corruzione perché quella era la loro natura, mantenendo tradizioni e usanze troppo vecchie per il tempo per non scontentare nessuno, senza il minimo ammodernamento perché si sarebbero inimicati troppi e già quelli che li sostenevano erano al limite dei "pochi".
La solita famiglia ha preso un sacco di decisioni sbagliate in campo militare e internazionale, arrivando a trascinare l'Italia in due guerre sanguinose che abbiamo perso contro l'Austria (I e II guerra d'indipendenza) alleandoci con la Francia che avremmo tradito poco dopo, entrando in una guerra mondiale di cui vorrei ricordare Fiume (con quell'esempio di magnanimità che è D'Annunzio) e la disfatta di Caporetto e una seconda guerra mondiale dove l'Italia è stata consegnata dal re in persona nelle mani di un folle dittatore che ci ha trascinato, come se ne avessimo bisogno, nell'ennesima mattanza, regalandoci a seguire un periodo di vera soddisfazione (qualcuno legga La storia di Elsa Morante).
Nell'Ottocento il Paese era pronto da secoli per un'unificazione, ci provò già nel Cinquecento il buon Cesare Borgia ma visto che siamo in Italia gli unici a volerla alla fine erano gli intellettuali, gli altri erano troppo saldamente ancorati ai propri privilegi! Tanto per dire che nulla è cambiato...
Non mi piace ricordare come la Francia, la Spagna e l'Austria hanno trattato il Paese, l'abominio, lo stupro del suolo italico che è stato concesso loro di perpetrare per tutto il tempo perché chi poteva fare qualcosa, da questa situazione ci ricavava guadagno e non gli interessava un'unità. La Germania, l'unico altro stato che ha una vicenda simile alla nostra, ha saputo creare un'unità e una coesione, anche con le regioni a lungo separate come la Germania dell'Est (ex DDR), davvero ammirevole.
Noi, dopo 150 anni di unità siamo indietro di mille, portiamo avanti gli ideali separatisti del tempo di Comuni e Signorie e ciascuno tiene caro il proprio fazzoletto di terra e chi se ne frega dell'unità e degli altri, una filosofia che mi piace riassumere ricordando che un sacco di civilissimi italiani gettano ancora la propria spazzatura, foglietti, cartacce e gomme da masticare per strada, senza la minima considerazione di tutti gli altri come loro che per la strada ci camminano.
Dalla storia non abbiamo imparato niente.
Per questo motivo, non credo di essere la persona più adatta a parlare della storia d'Italia né mi va molto di farlo. Se a scrivere di quella inglese, per orribile che sia, in fondo mi diverto, per quella italiana non accadrebbe altrettanto.

Il motivo per cui a volte trovate riferimenti al nostro Paese è per rendere più familiari eventi e citazioni con qualcosa che magari conoscete meglio (il Re Macellaio?), ma se ci sono esempi più calzanti sappiate che io li adopero.

Non sono preparata a sufficienza, dotata del tempo necessario e sicuramente non la persona adatta per parlare della Storia d'Italia.
Se non fossero morti, vi avrei rimandati ad Enzo Biagi o a Indro Montanelli che con le loro opere hanno sviscerato la storia del nostro paese e in modo più che esaustivo.

Con questo, spero, amici come prima.
Baci

Mauser

21 luglio 2011

Sonzogno pubblica «Come una rosa d'inverno»

Cari lettori,
a volte i miracoli esistono.

Benchè io sia scettica per natura stessa del mio carattere, perchè non si può essere sarcastici senza essere un po' scettici, questa volta sono estremamente positiva e, una volta in più ancora dobbiamo ringraziare l'evoluzione tecnologia che ci ha portato il web 2.0, cioè quel tipo di interazione che permette agli utenti di Internet di essere gli stessi costruttori, realizzatori e contibutori delle piattaforme e dei contenuti.

Insomma, per dirla con le parole di Tram:

Sì, lo so che per sua stessa definizione il web 2.0 fattelo-da-te può essere una manna (quando trovi quel che cerchi) o un lavoro (quando lo scrivi), ma trovo molto produttivo il fatto che esistano blog, forum e siti come Wikipedia o aNobii.
Inoltre, questa proliferazione di persone che esprimono la loro opinione, esercitano una specie di libero arbitrio commerciale consigliando o scongiliando e si preoccupano di far sapere cosa ne pensano delle cose a volte torna utile perchè sensibilizza i produttori di beni e servizi destinati agli utenti (anche quelli 2.0) secondo le richieste di questi.

Insomma, il solito preambolo che parte da Saturno per dire che il web 2.0 ha fatto l'ennesima conquista ed è riuscito a strappare con successo dai meandri dell'oblio Winter Rose, il romanzo che segue l'altro racconto di Jennifer Donnelly, quello di cui in passato lessi e scrissi: I giorni del tè e delle rose che solo di recente, lo scorso tardo autunno, abbiamo avuto la possibilità di vedere ristampato da Sonzogno in edizione economica dopo che la hardcover era introvabile, costosissima e sparita dai mercati cartacei e online (cfr. Braccando «I giorni del tè e delle rose»).

Per Winter Rose - Come una rosa d'inverno era stata aperta una petizione online per sensibilizzare la casa editrice sul problema di lasciare in sospeso una serie, tra l'altro neanche una caterva di libri come le varie saghe paranormal romance che abbiamo sul mercato (Feehan, Cole, Ward, Adrian) che constano di decine di volumi, ma due miserevoli libri per la storia creata dalla Donnelly che sarebbe stato un vero peccato lasciare in sospeso decidendo di cogliere la mela con il primo, ma fare finta di dimenticarsi dell'altro.
Sono felice di questa risoluzione che ha portato la casa editrice ad avvicinarsi anche al secondo libro e mi auguro che la qualità dell'edizione che intendono proporre per la storia sia leggermente superiore a quella della versione economica de I giorni del tè e delle rose, della quale mi sono veramente vergognata sia per la scarsa cura dell'impaginazione e formattazione, sia per la scelta dei materiali e della copertina (orrorifica).
Ma pensiamo positivo!
Come una rosa d'inverno sarà pubblicato da Sonzogno a settembre e io mi auguro che non faccia subito il tutto esaurito e che siano state preventivate un numero sufficiente di copie da distribuire alle librerie.


Trama
Siamo sulle sponde del Tamigi e corre l'anno 1900.
I sobborghi londinesi non sono certo posto per una ragazza, specialmente quelli più malfamati e puzzolenti, ma la determinazione di India Selwyn Jones è talmente grande da sfociare nella testardaggine ed è infatti riuscita ad estorcere alla sua famiglia il permesso di esercitare come medico per i più bisognosi.

Proprio tra la gentaglia India conosce il più famoso tra i gangster della capitale, il temutissimo Sid Malone, tanto affascinante quanto ammantato da un'aura di crudeltà e mistero. Il suo senso di giustizia le impone di cercare di redimerlo, ma non è questo l'unico motivo che la lega al pericoloso criminale tanto diverso da lei, quanto il misto di attrazione e repulsione che la spingono ad abbandonare la sua vita e i suoi cari per seguirlo nel mondo di violenza, povertà, miseria e storie di vita.

La storia è il seguito di quella che aveva visto protagonista Fiona nello scorso volume, che qui ritornerà insieme a Joseph per alcune apparizioni. Secondo le rivelazioni dello scorso capitolo, infatti, Sid Malone è il nome che il fratellino di Fiona ha acquisito per vivere nei sobborghi di Londra, braccato com'era dalla polizia per i suoi incontri clandestini di pugilato e sconvolto per l'assassinio della madre ad opera del misterioso Jack lo Squartatore.



Grazie, Internet!
E grazie anche all'autore anonimo del commento che mi ha permesso di scoprire questa interessante news!
Con affetto, ad entrambi


Mauser

16 luglio 2011

Le divise dei domestici

Ciao a tutti, cari lettori.
KuroshitsujiNel manga il protagonista è un mag-
giordomo demoniaco con inconfondi-
bile divisa tardo vittoriana
Sto cercando di impegnarmi a fondo per recuperare un po' del tempo perso, ultimamente tra l'ufficio, le trasferte e un sacco di arretrati il tempo che ho potuto dedicare al blog è stato poco, ma spero di potermi rifare e per farmi perdonare andrò a parlare di un argomento che so caro a molti di voi: le divise della servitù.
Ogni qual volta si pensa al periodo vittoriano, la prima cosa che viene in mente insieme all'imponente figura della Regina Vittoria è sicuramente la cameriera tipo del periodo, quella classicamente vestita di nero e bianco con crestina e polsini inamidati.
Questa è una figura molto cara a tanti di noi, che la identificano come il personaggio dell'epoca. Ed è il primo mito da sfatare. Spiacenti, miei cari e appassionati lettori, ma la cameriera in abito nero e gembiulino candido e raviolo in testa è un'entrata molto tardiva, nel mondo della servitù domestica, per molteplici motivi, il primo dei quali riguarda il fatto che nessun membro femminile del personale di casa poteva avere contatti con ospiti e visitatori, quindi non occorreva che il personale donna fosse tirato a lucido nel caso un passante le avesse incrociate.
Partiamo quindi dal presupposto che, almeno fino agli anni Settanta dell'Ottocento il personale dotato di divisa era solo quello maschile di rappresentanza, vale a dire maggiordomi, valletti, paggi.


Livrea da valletto di
fattura militare.
Epoca: metà Settecento
Periodo Georgiano
L'evoluzione della divisa dei domestici vede un punto di svolta durante il periodo seguente alla Reggenza, cominciano a trasformarsi nel tipo di indumenti che ancora adesso riconosciamo.
Prima di allora la divisa di un domestico di rappresentanza, come detto rigorosamente uomo, aveva un taglio molto militare e in alcune case il personale adoperava lo stesso tipo di abbigliamento che aveva indossato durante guerre e battaglie a cui aveva partecipato, un caso famoso è quello del domestico dei Villefort nel romanzo Il conte di Montecristo: l'uomo, incaricato di occuparsi dell'anziano genitore del procuratore, indossa con orgoglio la divisa che aveva ricevuto per prendere parte alle campagne napoleoniche in centro Europa, la cosa crea non poco imbarazzo alla famiglia, in quanto la caduta in disgrazia dell'Imperatore dei Francesi aveva portato dure rappresaglie contro i suoi sostenitori o presunti tali.

Altra divisa di rappresentanza
di fattura molto raffinata e con decora-
zioni e colori sgargianti.
Epoca: metà-tardo Settecento
La divisa standard, comunque, era composta da breeches, cioè le tipiche brache maschili prima dell'avvento del pantalone lungo, da una camicia bianca di fattura semplice e senza pizzi, da un bolero (altrimenti detto panciotto) o da una casacca lunga, di foggia militare settecentesca in colori sgargianti come rosso, verde, blu, nero, marrone; la giacca era decorata esattamente come quella degli ufficiali dell'esercito, quindi poteva avere cordoni, bottoni metallici, alamari, addirittura bordature in passamaneria, polsini ripiegati, colletto rigido e controspalline. Per chi non lo sapesse le controspalline sono quelle strisce di tessuto o passamaneria simili alle nappe delle tende o dei tappeti che sormontano frange dorate e che fanno tanto divisa da parata.
Immancabile, nella divisa del domestico tip settecentesco era la parrucca che era costituita dai consueti boccoli sopra le orecchie e da un codino posteriore. La parrucca poteva essere richiesta solo in ambiti particolarmente formali, famiglie molto altolocate o eventi specificiatamente snob.

Ostentare ricchezza vestendo non solo se stessi, ma anche la propria casa e il proprio personale era una forma di mostrare la propria borsa, così come avere carrozze costose, case sontuose, optional di grido, inviti e conoscenze.

Das Schokoladenmadchen
by Jean-Etienne Liotard
Naturalmente questa era la divisa del personale di rappresentanza. Il resto della casa, quelli insomma che non venivano visti dagli ospiti, vestivano alla meglio secondo la moda (povera) dell'epoca.
A volte per le cameriere della casa, quelle che si occupavano della padrona, delle figlie e delle pulizie, era prevista una linea di vestiario che comprendeva abiti candidi, scarpette a sabot e cuffia.

Non lasciatevi ingannare dai dipinti che rappresentano personale domestico con scolli di pizzo e maniche a palloncino, il vestiario della cucina, così come della servitù più modesta era quello di tutti i giorni, panni in cotone, magari decorati a righe dovuti alla cucitura insieme di più tessuti (qualunque altra deroga decorativa era molto costosa, per il tempo, perchè non si poteva ottenere semplicemente giuntando insieme le pezze e l'effetto patchwork non era di moda), maniche a tre quarti che non intralciassero nel lavoro e scarpe basse e comode, sia a stivaletto che a sabot.


Divisa per domestici di epoca
tardo settecentesca-ottocentesca
La giacca si è accorciata, ma si mantiene
la fattura militare e le breeches
Durante la Reggenza
In epoca Regency si mantennero esattamente le stesse consuetudini settecentesche per quanto riguardava la divisa della servitù, compresa la divisione nettissima tra il personale di rappresentanza, riccamente abbigliato e quello dietro le quinte che si occupava di mandare avanti la baracca e a cui nessuno teneva la porta aperta.
Al tempo in cui Jane Austen ambienta i ruoi romanzi, a Rosings e a Pemberly probabilmente si sarebbero ancora riconosciuti domestici con la livrea militare e, allo stesso modo, alla fine del libro Lydia, l'irrispettosa sorellina di Jane e Lizzie ammette di aver acquistato le bardature per i propri domestici di seconda mano.


Epoca Vittoriana
In realtà il processo di cambiamento avviene leggermente prima dell'ascesa al trono di Vittoria, più precisamente nel periodo di transizione che si ha tra il regno (e non la Reggenza) di Giorgio IV e l'arrivo della piccola Hanover.
Livrea per domestici
epoca ottocentesca.
La giacca si allunga
in maniera uniforme, si
introducono i pantaloni
lunghi e le linee sono
molto più definite
L'evoluzione della moda sia in campo maschile che femminile porta un inevitabile cambiamento anche nel gusto dei paramenti della servitù. Le linee di vestiario maschile iniziano a farsi sempre più semplici e pratiche, il pantalone si allunga, i colori si uniformano, mentre viene conferito anche al personale femminile (anni Cinquanta) una uniforme di servizio, sebbene le donne continuino ad essere relegate a compiti che non prevedano il contatto con gli ospiti.

L'arrivo del tradizionale abito tipo smoking da pinguino per gli uomini e il vestito nero (che poi nero non era) con crestina per le donne sarà un'introduzione degli anni Settanta dell'Ottocento, circa, e non sono altro che una progressiva acquisizione, con un briciolo di miglioramento, degli abiti da lavoro comunemente impiegati dal personale, che erano di colori scuri, come marrone o grigio tortora, blu e cartazucchero, in materiale lana o cotone; questi erano ornati di grembiule più o meno raffinato e il raviolo ridicolo che le cameriere sfoggeranno alla fine dell'Ottocento altri non è se non l'evoluzione della cuffia che fin dal Settecento le donne indossavano per lavorare e, a volte, anche per andare in giro.
La cuffia faceva sì che i capelli rimanessero in ordine, non si impiastrassero nei lavori e non creassero fastidio al volto o alle mani (alcune li avevano molto lunghi). La crocchia, come saprete benissimo, è la pettinatura per eccellenza delle cameriere da sempre per gli stessi motivi della cuffia e si mantenne anche quando quest'ultima si trasformò in mero vezzo.
Il grembiule, inoltre, che a noi piace ricordare immacolato, non era certo bianco nella realtà perchè indossato per dei lavori, quindi macchiato di polvere, cera, cenere, erba, terra, sporcizia in genere.

Nelle case dei meno esigenti era permesso non avere un'uniforme per il personale non di rappresentanza.
Chiaramente, se il valletto o il paggio aveva abiti di un certo livello, si poteva supporre che anche la famiglia fosse benestante. Seguendo la moda, il pantalone lungo divenne la norma, così come la camicia rimase chiara e la giacca divenne un obbligo.


La divisa nera
L'idea che tutte le domestiche avessero il vestito nero altri non è se non un preconcetto moderno, dove si tende a semplificare un po' tutto.
Emma di Kaoru Mori
Nel manga la protagonista è una
cameriera degli anni '90 del-
l'Ottocento e indossa la divisa
nera che tutti conosciamo
In realtà le domestiche di case diverse avevano una divisa differente, questo per distinguerle e distinguersi. Era importante per loro sfoggiare qualcosa di differente dalla ragazza della casa vicina, l'identità era omologata per ogni casa, ma comunque personalizzata.
Era un concetto importante soprattutto per le cameriere che lavoravano in case con poco o medio personale.

Le grandi magioni, invece, raccoglievano un po' di tutto, il personale poteva provenire da tutta l'Inghilterra, con o senza referenze. Con la carenza di domestici che si ebbe tra gli anni Cinquanta e Novanta e il numero che veniva impiegato, raramente queste grandi case potevano permettersi di dare loro il vestiario ai dipendenti, che quindi continuavano ad adoperare il proprio abito da lavoro. Dagli anni Settata diviene di moda dare alle dipendenti l'abito grigio o nero, inutile dire che, uniformandosi l'abito da lavoro, qualunque fosse la provenienza della persona, questa avrebbe avuto qualcosa di somigliante a tutti gli altri, magari non dello stesso livello (se aveva lavorato per una casa più ricca o più povera), ma poco differente, come è il caso del manga di Emma, che giunta presso i Molders, ha con sé lo stesso abituccio portato mentre lavorava presso la signora Stoner. Adele, la capocameriera, osservandolo lo ritiene di fattura troppo povera e le presta un grembiule dei suoi e una cuffia, almeno finchè non avrebbe avuto i soldi, detratti dal salaro, per acquistare il corredo di livello necessario.

Sfatiamo anche il mito del colore, l'abito delle cameriere non era nero, bensì GRIGIO o al massimo color antracite. Nero era solo il vestito per le occasioni ufficiali, in quanto questo colore tende a sporcarsi molto più facilmente del grigio.

Come si nota da questa foto di un adattamento tv, le divise potevano non essere nere e neppure tutte dello stesso colore.
Nonostante questa uniformità di vestiario nella foggia e nel colore, le differenze si mantennero specialmente perchè la comparsa del personale femminile era rarissima e quindi non si aveva necessità di renderlo più grazioso spendendoci soldi. Fino agli anni Venti del Novecento il servizio a tavola era fatto esclusivamente dagli uomini, infatti nel telefilm Downton Abbey crea scandalo il fatto che una cameriera sia reclutata per servire la cena a causa dell'indisposizione del valletto del signore, menomato da ferita di guerra e costretto a spostarsi con un bastone.


Un ragazza di cucina che indossa
la cuffia, il pin-apron e un abito
chiaro e di fattura semplice come
d'usanza
Divise in cucina
A differenza degli altri piani, la cucina era un mondo a sé stante.
Qui il personale non era tenuto a indossare una divisa, anche se per praticità era abbigliato con colori chiari.
In cucina il grembiule era d'obbligo visto il genere di lavori svolti, le donne erano inoltre tenute a portare la cuffia, una scelta d'igiene non indifferente, e alcune portavano anche le coprimaniche, ovvero rivestimenti in stoffa di forma tubolare fermati al polso e ai gomiti che servivano per proteggere i polsini del vestito durante il lavoro.
Li indossavano anche tutti coloro che per mestiere avevano a che fare con l'inchiostro, quindi contabili, notai, scribacchini...

Nel caso la padrona avesse richiesto la divisa anche per le sguattere e la cuoca, questa sarebbe stata chiara, con al massimo una decorazione a righini.


Procurarsi una divisa
La scuola per maggiordomi e servitori,
in Inghilterra, abilita ogni anno dalle
50 alle 100 persone perfettamente formate
per prendere servizio tra il personale.
In epoca georgiana una casa che assumeva personale aveva la possibilità di prendere servitori sia già dotati di divisa che di fornirla in casa. Anche nell'Ottocento alcune dimore mantennero questa condotta.
Nel caso scegliessero di assumere con divisa il salario del dipendente era evidentemente più alto, certo capitava che il personale avesse ciascuno una giacca diversa e potevano non essere abbinate per foggia, decoro e colore, ma si risparmiava sull'acquisto.

Se invece era la casa a fornire gli abiti, allora il contratto poteva prevedere che il prezzo dell'abito fosse detratto dal salario, in quel caso però, quando un dipendente lasciava il posto, portava con sè anche il nuovo abito da lavoro.
Altrimenti, se a pagare la cifra erano i padroni, giacca, brache, ecc sarebbero rimasti alla casa per il prossimo impiegato.

Esisteva poi una scelta intermedia che era quella di acquistare le divise di seconda mano.
Queste uniformi erano spesso smesse da altre case dove si era deciso di rinnovare anche il guardaroba dei servi, oppure perchè non adatte al nuovo personale o, ancora, fuori moda.
In quel caso il costo era inferiore e approcciabile anche dalle case meno abbienti e meno pretenziose, questa è la scelta fatta da Lydia e George Wickham riguardo il proprio personale, tanto che la ragazza se ne vanta addirittura con la madre.

In epoca Georgiana, quando la servitù era un lusso per pochi ricchissimi, l'usanza era quella che il vestiario appartenesse alla casa, in questo modo tutti erano appaiati e ordinati e con le stesse giacche e brache.

Verso la fine del Settecento una famiglia media poteva in genere permettersi un paggio e un valletto e un paio di cameriere, da lì in poi sempre più domestici diventeranno proprietari del proprio abito.

In tutti i casi, comunque, il personale si preoccupava di tenere con la massima cura la divisa, in quanto essa faceva parte dei suoi strumenti di lavoro.
Lavata con cura durante i giorni non lavorativi, era rammendata con perizia nel caso si fosse bucata, ogni punto era sistemato, i bottoni lustrati fino a splendere e le scarpe tirate a lucido. Tenere con ordine la propria divisa faceva parte degli impieghi di un buon domestico così come lucidare le posate del servizio buono.


Spero che l'approfondimento sia stato interessante e di aver finalmente messo una pietra sopra quell'odioso mito della gonna nera e del grembiule bianco che si associa inevitabilmente all'epoca Vittoriana, peccando di ingenua ignoranza.
Ricordatevi che suddetta divisa è ritrovabile solo alla fine dell'epoca Vittoriana e in quella Edoardiana!

Con affetto,



Mauser

9 luglio 2011

Quando il vampiro si fa donna: Carmilla

La svolta Twilight, è innegabile, ha cambiato un po' i gusti letterari e gli stereotipi della narrativa fantasy mondali. Che il romanzo piaccia o no, è stato grazie a lui che qualcuna delle case editrici ha cominciato ad interessarsi ad una particolare declinazione del fantasy che viene denominata urban fantasy caratterizzato da uno scenario metropolitano e da creature fantastiche che circolano con più o meno nonchalance nel sottobosco della vita cittadina.
Il fascino dell'occulto che si insinua nella normale quotidianità, senza tuttavia generare scalpore evidente, ha la sua parte di fascino, così come l'idea di poter accidentalmente entrare in contatto con tutto ciò o di far vivere il mito che anima molti:
redimere il mostro.
Le creature dell'urban fantasy moderno sono pericolose, forme di vita diverse spesso nate per combattere e uccidere e provenienti da un passato dove ciò era comune: l'idea di riuscire a mutare la loro natura da efferati predatori a signorini da salotto in completo Brooks Brothers esercita un discreto ascendente, infatti i libri di quel genere sono molto apprezzati, forse perchè gratificano l'ego del lettore e il suo
potere che, a differenza di quello dei mostri, non deriva solo da forza e magia, ma da coraggio, volontà, costanza, buoni sentimenti... il classico amore che salva il mondo, insomma.

Ecco, tutto questo che sembra il ritratto di molta narrativa contemporanea (Ward, Cole, Adrian, Harris) fa parte di quel ciclo di
ritorno della moda che tanto viene citato nelle riviste femminili su abiti e accessori, ma che, a mio avviso, si può applicare ad ogni aspetto "commerciale" della vita.
Libri compresi.
Nel
1872 vede la luce Carmilla e sono certa che sentendone parlre, a parte un pizzico di old school, lo troverete un romanzo attualissimo.
Carmilla non manca nulla di quello che si può trovare nel romanzo moderno, nemmeno la componente sessuale, compresi i riferimenti a rapporti illeciti, lo scandalo, il voler salvare il male a tutti i costi.
Con un paio di scene spinte in più credo che potrebbe essere stato scritto senza problemi da
Kersley Cole... beh, forse la Cole non avrebbe saputo creare qualcosa di così eterno...

A differenza dei romanzi moderni, a partorire il vampiro femmina più famoso della letteratura non è stata una donna, ma un uomo,
Joseph Sheridan Le Fanu.
Carmilla ha in sé la maggior parte degli elementi del romanzo gotico, sia nella struttura che nell'ambientazione, mantenendo però una sua identità, una sua coerenza e raffinatezza stilistica che si esprime principalmente nella caratterizzazione dei personaggi.
Rimane fisso l'assioma ottocentesco che i
vampiri sono creature sanguinarie e malvagie, questo è importante non dimenticarlo, offuscato dai vampiri glitterati moderni che non hanno nulla a che vedere con l'efferatezza dei loro compari più antichi: come si suol dire, anche loro si sono abituati alle comodità del XX secolo e solo Jean-Claude, a quanto pare, ha mantenuto una certa continuità nel vestiario misto Ward e Lady Oscar.


La trama
*** d'ora in avanti potranno riscontrarsi spoiler ***

Siamo nella Stiria autriaca dell'Ottocento, la giovane Laura vive insieme al padre in un isolato castello, attendendo trepidante l'arrivo dell'unica amica che ha per trascorrere le sue noiose giornate, la nipote del generale Spielderof.
La ragazza, tuttavia, muore improvvisamente mentre si trova ancora a Vienna, infrangendo tutte le speranze della povera Laura, che si ritrova sola e senza compagnia tranne quella del genitore.

La sua solitudine, tuttavia, viene parzialmente alleviata quando una notte giunge al castello una carrozza sconosciuta che trasporta una donna e la figlia di lei, svenuta.
In cerca di riparo e assistenza, le due sconosciute si fermano presso il padre di Laura, ma dopo i primi soccorsi la madre riparte improvvisamente adducendo impegni improrogabili, lasciando la ragazza nelle mani di Laura e del padre.
Carmilla, questo il suo nome, è una creatura bellissima, ma di salute cagionevole e nervi deboli. Nonostante le poche cose che sanno l'una dell'altra, Laura e Carmilla stringono una forte amicizia, ma la nostra protagonista, che non è certo una stupida, comincia a notare alcuni comportamenti particolari, anche se non sospetti, nell'amica: le sue abitudini notturne, il fatto che non sopporti i
canti religiosi e che assomigli in maniera poco comune alla contessa Mircalla che duecento anni prima fu signora di quella terra.

Nel frattempo il generale Spielderof arriva al maniero e durante una gita insieme a Laura racconta alla giovane della tragica morte della nipote, avvenuta dopo l'arrivo in casa loro di una strana fanciulla, loro ospite, di nome Millarca: dopo la sua comparsa la ragazza aveva
incominciato a manifestare visioni e progressivi problemi di salute. Il tutt condito con un'ambientazione molto suggestiva visto che la gita che il generale e Laura stavano conducendo era alle antiche rovine del castello di Karnstein.
Arrivati ai ruderi, però, incontrano Carmilla. In lei il generale riconosce subito la terribile Millarca e cerca di ucciderla, senza successo.
Adesso tutti nel castello sono alla ricerca di Carmilla e il generale chiama anche un esperto, il dottor Vanderbug, perchè possa liberarli dalla presenza maligna del vampiro, responsabile tra l'altro delle continue sparizioni di giovani dal villaggio.

Laura però non riesce ad assimilare la notizia e, progressivamente la sua salute si indebolisce: il peggioramento delle condizioni della giovane spinge il padre di lei, Spielderof e Vanderbug ad agire con rapidità e si recano infatti senza la figlia alle rovine dei Karnstein alla ricerca della tomba di Carmilla per bruciarla, l'unico modo per eliminare definitivamente il vampiro. La tomba fu nascosta con attenzione proprio da un antenato di Vanderbug, che al tempo della morte della contessa Mircalla ne fu innamorato.


Tematiche
Come detto all'inizio, il racconto di Carmilla è molto attuale come tematiche trattate.
Vediamone alcune insieme.
Trattare l'antagonista cattivo

L'approccio che viene fatto all'anima crudele che viaggia sulla terra alla ricerca di sacrifici, quella di Carmilla, è molto diverso da quanto espresso fino ad allora.
La crudeltà del vampiro che fa da chiave di volta della vicenda, pur senza esserne ufficialmente il protagonista, è una forma di sopravvivenza e questo è un concetto più attuale che ottocentesco, è infatti solo col Novecento che si è sviluppata, specialmente nella narrativa e nella letteratura, la moda di dare ai propri cattivi delle motivazioni di profondo disagio o disadattamente nel mondo, si comincia già dagli anni Venti a dire che non tutti i cattivi sono omalvagi nell'animo, ma costretti alla sopravvivenza o traviati da una vita di difficoltà e privazioni (quello che poi si evolverà nel mito del dopoguerra de bambino con infanzia difficile che invece prima era trattato molto diversamente, si veda Oliver Twist).

Carmilla è un essere nato dal rimpianto di Mircalla e l'uccisione per lei è solo una forma di sopravvivenza: a differenza del Monaco, dove la crudeltà del religioso era insita della sua natura, qui la differenza è più sottile, forse più vicina al concetto di vampiro moderno modellato sul: «Io non sono cattivo, sono gli altri a che mi disegnano così».
Il raffronto con il romanzo gotico dei primi dell'Ottocento (Le Fanu, Stoker e compagnia vanno parte del revival del genere gotico) porta alla luce proprio questa contrapposizione.

Ho spesso sentito dire che un buon romanzo lo si giudica proprio dalla particolarità e dalle sottigliezze con cui vengono caratterizzati e motivati gli antagonisti e mi sento di dire che Carmilla, personaggio oscuro e crudele, non certo protagonista, è però al centro della vicenda e opportunamente corredato di motivazioni inattaccabili, a fronte di ciò, considerando il genere di romanzi in voga all'epoca, si può dire che sia stato un autentico precursore e innovatore nel campo della caratterizzazione dei brutti-cattivi-col-cappello-nero che rimase invece come inattaccabile baluardo della narrativa mediocre.

Insomma, arrivati alla fine, a parte l'efferatezza con cui commette i suoi omicidi e il velo di raggiri che avvolge Carmilla con la sua sensualità e sessualità dubbie, verrebbe quasi voglia di compatirla, costretta a crudeltà e orribili crimini perchè non riesce a dimenticare l'amore di gioventù.




Amori tormentati
L'amore è l'altra tematica del libro.
Come nella maggior parte delle opere romantiche (in senso narrativo, non letterale) dell'Ottocento, l'amore è tragico e non coronato dal lieto fine, spesso distrutto dalla malattia e dalla guerra. Insomma, finisce in tragedia. Viva l'allegria.
Il che offre uno spaccato della vita dell'epoca, dove la mortalità era molto più diffusa di quella moderna a causa delle condizioni di vita, difficili anche per i più abbienti, e dell'arretratezza della scienza medica, priva di pietre miliari come gli antibiotici o i disinfettanti.
Nel romanzo di Le Fanu è comunemente accertato che i tipi di amore di cui l'autore racconta sono due, sebbene non tutti siano concordi nel classificarli insieme perchè uno di questi risulta un po' scomodo ai benpensanti e so che qualcuno è già arrivato a capire di quale sto parlando.

Il primo è l'amore di Mircalla e Vanderbug, una storia di duecento anni prima conclusasi a causa della morte di lei che ha dato inizio alla tremnda sequela di ragazze scomparse per l'arrivo della figura di Carmilla la vampira, altri se non lo spirito tormentato della contessa.
L'amore di Mircalla e Vanderbug ha tutte le caratteristiche per essere un amore da romanzo gotico, ambientato in un castello solitario della Stiria, ammantato di leggende e tradizioni sul vampirismo e finito male.
Non solo, ma anche il comportamento dell'amato è egoista e deviato, come per alcuni protagonisti gotici non esattamente eroici.
Vanderbug sr. infatti, ossessionato dal non voler perdere l'amata una seconda volta, fece in modo di nascondere la tomba di lei in modo che la ragazza che continuava a vagare sulla Terra come un'anima in pena non dovesse patire nuovamente la sofferenza della morte. Sarà solo in vecchiaia, con la saggezza di una vita e, forse, il senso di colpa per tutte le morti che ha visto a causa della nuova Carmilla che deciderà di lasciare scritto come ritrovare la tomba della contessa Mircalla, indicazioni poi riprese dal suo pronipote.
Da vero bohemien Vanderbug sr. muore solo e con il cuore nella morsa del del senso di colpa. Se non è amore tragico questo, dove i due innamorati muoiono entrambi tra mille sofferenze fisiche e psicologiche... sì, lo so che in confronto all'Adelchi è poca cosa, ma a me pare già più che sufficiente.
Pure Mircalla fa di tutto per mantenersi in vita: scoperto che l'omicidio è l'unico modo per rimanere sulla terra, lei continua a perpetrare crudeltà, incapace, forse per amore folle, di separarsi dal ricordo dal sentimento col suo amato.
So che può avere poca attinenza, ma questa particolare metafora del riuscire a staccarsi dal sentimento, per quanto profondo, mi ricorda l'ultimo romanzo della Ward pubblicato da Rizzoli: Possesso che, guarda un po', parla anche lui di vampirozzi.
Quasi al termine la dottoressa Jane, protagonista femminile di quel capitolo della saga del Pugnale Nero dedicato a Vishous, viene messa di fronte ad una scelta difficilissima eppure simile a quella che Carmilla compie ogni volta che uccide: ritrovatasi nel limbo, viene esorta dalla sorella Hannah, morta molto tempo prima, a lasciare ogni legame con la sua parte terrena per iniziare una nuova vita nel Fado, altrimenti detto Paradiso dei Vampiri. Jane, che è una donna pratica, comprende l'importanza di quella decisione, ma la debolezza della carne non le concede di lasciare proprio tutto e infatti rimane sospesa per un certo perioco, incapace di lasciare l'amore che prova per il tormentato protagonista.


Jane, come Mircalla, deve abbandonare la sua vita terrena per cominciarne una dall'altra parte, eppure l'amore tanto cantato dai poeti, tanto fantastico si rivela un'arma a doppio taglio, impedendo loro di continuare una vivere una vita differente. È un guinzaglio, insomma, che lega alla parte più terrena dell'esistenza e, come tale, è sempre troppo corto per considerarsi liberi.


Amori proibiti
Gli studiosi non sono concordi nel riconoscere questo tipo di relazione, nel libro di Le Fanu, io credo che dipenda dalla sensibilità del lettore e, soprattutto, da quello che egli sta cercando nella vicenda.
Come molte storie ottocentesche, Le Fanu non si spinge troppo nei particolari, ma in più di un'occasione si sofferma sul rapporto tra Laura e Carmilla e anche su quello tra la nipote del generale Spielderof e la stessa Carmilla, che all'epoca era presentata come Millarca.
Niente scene spinte, sappiatelo, non si tratta di un romanzo sconcio, anche se usando la fantasia ci si può trovare di tutto, ma vi sono riferimenti più o meno casuali, scene orchestrate ad arte come già nel romanzo gotico per rendere il più possibile vicina al proibito la storia, senza tuttavia incorrere nella censura.
Carmilla che accarezza Laura con lentezza, che le sistema i capelli, che compare d'improvviso nella sua stanza, che la vezzeggia come una bambola...
Tutto questo è ancora più accentuato nelle trasposizioni cinematografiche, dove, chissà come mai, la camicia dell'eroina decide di slacciarsi proprio mentre la inquadrano con Carmilla, la sua spallina scivola sempre quando l'altra la sta accarezzando, le mani protese, il collo lungo, bla bla bla, sapete bene di cosa parlo.

Indubbio è che l'autore abbia voluto caratterizzare il personaggio della vampira Carmilla in modo quanto più ambiguo possibile. Inutile dire che il fascino e le sue attenzioni, le carezze forse di troppo, per Carmilla non sono altro che le sue armi per procurarsi la cena, così come lo sono le fauci di uno sqalo, l'agilità del leopardo, il veleno di certi serpenti. Ogni predatore ha la sua tattica e specialità.
Che poi queste arti e questi trucchi messi in atto dai predatori facciano a pugni con la moralità, è un altro paio di maniche.
Ma a parte peccando di ingenutià eccessiva (e ingiustificata), credo che nessuno si sentirebbe di condannare con durezza un lupo che sbrana una lepre, certo il leprotto magari è carino e puccioso quanto si vuole e magari il lupo sembra un mostro, ma il predatore caccia per sopravvivere, non per crudeltà d'animo. Io penso che solo l'uomo uccida per divertimento, se di divertimento si può parlare. Ma l'uomo come genere umano, non Carmilla, che invece è un vampiro ed è un predatore naturale, in quanto caccia per sfamarsi, per vivere, non per procurare deliberatamente dolore agli altri. In questo non è diversa dal camaleonte, che si finge immobile, che inganna la preda, che si mimetizza e poi l'attacca, è una tattica dei predatori meno possenti e la nostra vampira, dalla bellezza ammaliante come lo è quella di alcune specie coloratissime quanto velenose, non può permettersi un corpo a corpo con un uomo adulto, essendo, ce la descrive Le Fanu, fisicamente debole e pallida e di salute cagionevole.

Da cosa si vede, quindi, tutto questo amore lesbico per il quale Carmilla è famosa, a parte che le sue prede sono belle giovanette innocenti?
Forse dal fatto che la nostra vampira non abbia ucciso Laura, l'inerme e generosa protagonista romantica del romanzo, dotata dell'ingenuità tipica delle eroine ottocentesche. Perchè risparmiarla quando l'eroina le gironzola intorno per tutto il santo libro?
La stava cuocendo a fuoco lento oppure anche il sanguinario vampiro della Stiria si era affezionato alla giovane inglese? E allora la nostra vampira si è fatta deliberatamente uccidere, avendo ormai compreso di poter lasciar andare l'amore che la legava al suo antico amato?

E Laura?
Laura è tormenta da sogni e visioni, ha un certo timore dell'amica, giunta improvvisamente e ammantata di mistero, è attratta dalla sua malia, dai suoi movimenti, eppure è anche terrorizzata da quei gesti di troppo, mascherati di casualità, che Carmilla le rivolge.
Citando Twilight, appunto:
Sono il miglior predatore del mondo, no?
Tutto in me ti attrae. La voce, il viso... persino l'odore.
Come se ce ne fosse bisogno.
Come se tu potessi fuggire.
Come se potessi combattere ad armi pari.
Come Bella, Laura subisce il fascino naturale di Carmilla, un fascino che è quello che le permette di sfamarsi.

Riflettendoci, però, forse, come l'Edward Cullen del nuovo millennio, dopo duecento anni su questo pianeta anche Carmilla prova una certa rassegnazione al suo destino di predatore immortale e, allo stesso tempo, vorrebbe che qualcuno potesse eguagliarla e allora, poichè niente a quanto si dice è più letale di un vampiro affamato, si sminuisce a sua volta, indebolisce se stessa, si limita per fare in modo che il confronto tra lei e Laura possa essere pari.
Eppure Laura si è affezionata tanto alla sconosciuta che non riesce ad accettare il fatto di perderla oppure di considerarla un mostro. Laura comprende i sentimenti di Carmilla? Comprende la sua vecchiaia interiore, il suo tormento e l'angoscia?
Laura può essere in qualche modo associata a Bella, senza che il romanticismo ci sia di mezzo?
Forse no... forse è la profondità dei sentimenti che, all'atto della rivelazione dell vera natura di Carmilla, fa capire a Laura che tiene all'amica ben più di quanto tenga alla sua natura.
C'è bisogno di amore, per tutto questo? Amore lesbico?
L'amore, si dice dalle mie parti, ha tante facce. Indubbiamente quello tra Carmilla e Laura lo è, anche se forse non del tipo da matrimonio.

Le Fanu è stato magistrale, è riuscito a porre duemila quesiti senza fornire neanche una risposta a quelli più spinosi. Qualunque risposta avesse dato ai lettori, questa avrebbe affossato il suo romanzo, così ha deliberatamente deciso di tacere al riguardo e il Carmilla da lui scritto ha attraversato secoli e guerre mantenendo intatta sia la sua tormentata atmosfera che la sua malizia. Portando avanti domande e quesiti, tormentate relazioni, sentimenti poco chiari a noi lettori e a loro protagonisti.
Naturalmente ci sono varie speculazioni su un possibile sequel, ad esempio cosa ne è stato della donna che accompagnava la vampira in carrozza: chi era?
Ma credo che, con tutti i suoi misteri irrisolti Carmilla si completi da sé.




Mauser

3 luglio 2011

Ikoku Meiro no Croisée diventa un anime

Andrà in ona in luglio 2011 l'anime tratto dal manga di Ikoku Meiro no Croisée, di cui il Georgiana's Garden si era interessato in precedenza.


Come ricorderete senza dubbio dal post dedicato, la storia narra il difficile incontro di due culture diametralmente opposte nell'ambientazione da Belle Epoque di fine Ottocento.
La giovane Yune, appartenente ad una famiglia di fedeli servitori, è stata inviata in Europa, in una Parigi da favola, insieme all'antiquario Oscar, capitato in Giappone dopo la recente riapertura dei confini nazionali (dopo la Restaurazione Meiji del 1865) per accaparrarsi pezzi unici e raffinatezze artistiche da rivendere in Europa.

Arrivata a Parigi la vita di Yume cambia completamente, si tratta infatti di un'esistenza diversissima da quella a cui era abitata nel suo Paese, le cose in Europa vengono fatte diversamente, le persone si comportano diversamente e perfino il cibo è diverso.
Allo stesso modo Claude, il nipote di Oscar, colui che manda avanti la bottega nella prestigiosa Galerie du Roy è intrigato dalla cultura che Yune porta con sè dal Paese del Sol Levante, i suoi colorati kimono, le sue maniere compite ed educate, la sua voglia di lavorare, ma allo stesso tempo la spensieratezza e curiosità dello scroprire cose nuove e nuovi modi di fare.

Da questa splendida, delicatissima storia è stato tratto un delizioso anime, dal tratto simile a quello di Emma, una chicca fresca e istruttiva che ci tengo a sponsorizzare.

Ecco il trailer che spero vi farà innamorare quanto ne. E come per Yune, che oltre alle difficoltà di cultura ha anche quelle della lingua, penso che pure noi che vediamo il piccolo spezzone senza capire molto delle parole riusciremo a coglierne l'essenza senza distinguere i diversi termini...







Mauser


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